Se la porta dell’ascensore al Huong Sen Hotel di Ho Chi Minh City non si fosse aperta quella mattina piena di sole di 12 anni fa e non avesse svelato il viso e il sorriso di Thủy, i suoi capelli dai riflessi blu e i tre punti di sutura sul mento, frutto di una caduta dalle scale all’orfanotrofio di Binh Duong, la mia vita non sarebbe ora così bella, impegnativa e affascinante. Se non avessi sentito con le mie orecchie le sue prime parole “Mẹ, Mẹ”, un suono non strano rispetto alla lingua vietnamita e che vogliono dire “mamma, mamma”, mentre saltava, con l’agilità di un pesciolino, nelle braccia di Cristina e sorrideva, con quello sguardo furbo e disincantato, ai suoi fratelli Maddalena e Giovanni, non avrei ora la sensazione che vivere l’insperato ha davvero un senso e una ragione profonda.
E’ per questo che mi sento di prendere la parola e alzare la voce a nome di Thủy , di Cam, di Nguyễn, di Matteo, di Vladimir, di Antuaneta, di Gilbert, di Leon, di Tania, di Jonas e di tutti i bambini adottati che ho incontrato in questi anni e delle loro famiglie, queste famiglie definite spesso in modi così diversi: coraggiose, strane, accoglienti, mai contente, speciali, “chissà/perché/lo/hanno/fatto”.
Per molti di noi è stato un modo di allargare il nostro sguardo e i nostri cuori piuttosto che chiudere la porta alla speranza, è stato pensare “che il mondo, come le nostre strade non hanno bordi e limiti” invece che starnazzare di confini da difendere, di credere che l’accoglienza e le parole che sanno di buono valgono più dell’odio e delle parole urlate, che la famiglia non è solo naturale o che altro, ma che è il luogo privilegiato dell’amore allo stato puro e gioioso, indipendentemente da chi e da come lo si esprime.
Mi permetto di rubare le belle parole di Daniele e Valentina, tornati da poco con due splendide bimbe dallo sguardo intenso e gioioso da Madhya Pradesh, un luogo sperduto dell’immensa India, quando affermano che l’adozione rappresenta una rivoluzione, perché i figli sono un’occasione di cambiamento, di ribaltamento, di messa in discussione delle certezze, della visione della vita, del sé. Perché nella fatica quotidiana ci guardano e da noi tirano fuori il bene e il male, l’angelo e il demone, le sicurezze e le fragilità e, nell’umiltà e nel riconoscersi genitore “principiante”, è necessario fermarsi e guardarsi dentro, vedere il figlio che siamo stati e far pace con noi stessi.
Forse questo contraddistingue, fra tutte le altre cose, il senso della scelta dell’adozione: in quel far pace con noi stessi si concretizza l’idea che è possibile, finalmente, fare pace anche con tutti, coltivando quell’unità che non tiene conto della diversità di lingua, di origine , di storia, di colore della pelle e che quella diversità stessa diventa ricchezza, un bene prezioso e necessario. La nostra vita prende colore nella bellezza di sentirsi parte infinitesimale, ma decisiva, di un mondo nuovo, perché finalmente riconciliato.
Ed è per questo che mi sento di alzare la voce contro chi è sfuggente, perché spesso incompetente e disinformato, nell’affrontare questo argomento. Penso alle istituzioni che sull’adozione procedono al rallentatore e spesso in modo contraddittorio, alle associazioni che hanno perso di vista il loro compito primario di sostegno e accompagnamento alle famiglie, ai servizi che dovrebbero scendere dal piedistallo del loro sapere e impegnarsi per portare maggiore attenzione a quelle giovani vite che già hanno subito tante ingiustizie, cattiverie e ostilità e non trattarle come casi, secondo protocolli standardizzati. Penso, con amarezza e delusione, anche alle pastorali rassegnate e senza anima, più preoccupate per i convegni, le serate, le ricorrenze, piuttosto che orientate alla crescita del senso di comunità e di accoglienza e che manifestano, alle volte, un volto che non è certo quello compassionevole e prossimo del Cristo.
E per ultimo, e con dolore, alzo la mia voce indignata verso la scuola: i bambini e le bambine adottate, nell’ambiente che dovrebbe essere luogo di integrazione e di valorizzazione, luogo nel quale ognuno non dovrebbe mai sentirsi solo, pagano un prezzo molto alto rispetto ad un loro futuro di felicità e di emancipazione sociale.
Nel loro percorso scolastico i bambini adottati spesso finiscono, con grande velocità, nella spirale del vuoto e della solitudine. Passano, ritualmente e pregiudizialmente, attraverso i test sulla dislessia, le prove sulle forme strane di autismo e d’incapacità cognitiva, quasi la loro storia dovesse necessariamente essere segnata da limiti e inadeguatezze. Per fortuna troveranno sulla loro strada anche maestre attente e preparate per costruire percorsi individualizzati e piacevoli e docenti che si interrogheranno sul come fare davvero integrazione. Ma basterà qualche docente della scuola media o delle superiori ad abbattere definitivamente la poca autostima conquistata, le capacità acquisite, spesso con l’aiuto generoso dei genitori e di qualche compagno e amico vero.
Rimarranno piuttosto in loro le ferite della quotidianità, le angosce delle interrogazioni a sorpresa e del non “sentirsi mai all’altezza”. Si sedimenteranno, come macigni pesanti e insormontabili, le battute ironiche di qualche incapace o i proclami dei “saccenti”, che non comprenderanno mai l’innocenza ferita della loro infanzia.
Questi ragazzi e ragazze dai nomi curiosi, spesso impronunciabili, ma quasi sempre pieni di significato, sono in Italia per diventare persone con diritti pari agli altri. È il loro destino, è la loro storia speciale di “nati due volte” e non possiamo, come genitori, non alzare la voce e indicare la strada dell’adozione non come un percorso eccezionale e difficile, ma come una strada da percorrere anche con fatica, ma soprattutto con entusiasmo, sicuri di essere dalla parte giusta, dalla parte dei più piccoli e abbandonati, dalla parte della gratuità e dell’accoglienza senza “se” e senza “ma”, dalla parte dell’affermazione dei diritti per ogni persona, dalla parte di un mondo che vogliamo, non a parole, degno di essere vissuto.
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