L’esame, uno specchio in cui guardarsi per capire

Nei miei 38 anni da docente e poi da dirigente della scuola trentina sono stato attore e spettatore delle “novità” dell’Esame di Maturità, che per la verità ormai da qualche tempo si chiama Esame di Stato. Per ben 36 volte sono stato commissario, sia interno, (“perché sei giovane, fallo tu dai..”) che esterno (su e giù per le valli), poi presidente di commissione (anche su 12 classi in un colpo solo per la novità del Presidente unico).

Ho visto cambiare l’esame col passare delle stagioni e dei Governi e con le mutevoli idee dell’uno e dell’altro Ministro, che non hanno lesinato “novità”, spesso incomprensibili ai più.

E’ l’uso della parola “novità”, utilizzata anche per questa riforma 2019, che mi preoccupa. Nella scuola, di fronte a questa parola, alcuni sono presi da un senso d’incertezza e di timore, altri invece pensano al lasciapassare per un “cambiamento” di cui, spesso, non conoscono la direzione e la meta finale. Altri ancora, in uno slancio di ottimismo, vorrebbero pensare a qualcosa che finalmente semplifica, coordina e rende autorevole un meccanismo di valutazione e di verifica delle effettive conoscenze e competenze, che formano il bagaglio culturale degli studenti che, di lì a poco, si affacceranno sul mondo del lavoro o di studi più complessi e impegnativi.

E ancora non so se ci saranno passi migliorativi, non perché io sia preso da una forma di sfiducia generalizzata, ma perché, come nei peggiori copioni delle nostre commedie italiane e locali, basta semplicemente cambiare governo e scopriamo di volta in volta “nuove parole d’ordine” per i percorsi scolastici.

Perché è sempre colpa di “quello di prima” se le cose non hanno funzionato e perciò vanno cambiate “a prescindere”. Anche le poche buone idee precedenti devono essere, rigorosamente, smontate e gettate con disinvoltura.

Insomma poca sostanza, anche questa volta, dietro una forma francamente non certo innovativa: si riducono in questo Esame di Stato 2019 le prove scritte (da tre a due) mutando, di conseguenza, il valore del loro punteggio e si introduce una prova orale “con estrazione della busta, fra tre buste proposte” (predisposte dalla Commissione), da parte del candidato.

A proposito il Ministro ha precisato che nella busta NON ci saranno le domande che la commissione dovrà rivolgere al candidato, ma saranno presenti, in forma varia – cioè per esemplificare “un testo, un documento, un’esperienza, un progetto, un problema“ – i contenuti che “rappresentano lo spunto per il colloquio”. Esso comprenderà pure l’esposizione sull’esperienza di alternanza scuola lavoro, le competenze di cittadinanza e la discussione sulle prove scritte.

Le buste, è vero, hanno finalmente tolto di mezzo l’inutile teatrino delle “tesine”, che raramente erano interessanti, condivise dal Consiglio di Classe e realmente multidisciplinari e spesso erano l’inizio di un colloquio di cui non si capiva il senso: da “Guernica: la mia passione”, a “ La storia della musica beat”, passando per “Adamello: il recupero delle bombe a mano della Grande Guerra” a incerti collegamenti fra “Fisica e mondo degli UFO” (con piccola spiegazione inglese “of course”) fino alle 12 tesine sul “Bruxismo” nella stessa classe.

Ma poi il colloquio si snoderà, questa volta, come sempre, sull’instabile equilibrio fra commissari interni ed esterni, sulle capacità di mediazione del presidente della commissione, sulle “alleanze” che si formano come nella volata di una gara ciclistica: “io vinco la tappa e tu la maglia”.

In vista dell’esame, più che sulla “novità” organizzativa, si dovrebbe quindi puntare a una rinnovata e generale formazione, che sia in grado di valutare la qualità delle competenze, di valorizzare i percorsi, anche personali, delle studentesse e degli studenti, che non si possono costringere in “griglie di valutazione e buste a sorpresa”.

La “novità” dovrebbe essere ricercata nella reale credibilità della scuola come luogo capace di “trasformare le informazioni in conoscenza e la conoscenza in sapienza”, una realtà che aiuti a formare “teste ben fatte piuttosto che teste ben piene” e dove un esame sia la valutazione di un percorso di crescita personale, emotiva e culturale.

In altri Stati l’esame si riduce ad un colloquio, anche impegnativo, su un lavoro di ricerca, reale e non Wikipediano, da parte dello studente, con una valutazione complessiva del percorso formativo.

Forse ci si dimentica, e si sottovaluta, che dall’altra parte ci sono studentesse e studenti alla fine di un percorso scolastico, carichi delle loro attese, delle loro paure e del loro desiderio di realizzazione umana e culturale. Perché anche un esame che non renda giustizia, nel bene e nel male, equità e merito reale a un percorso scolastico così lungo, mette in crisi non tanto sul piano delle possibilità future, ma piuttosto su quello dell’autostima personale e della realizzazione di sé.

La maggioranza degli psicologi concorda sull’utilità dell’esame finale perché “l’importanza della prova restituisce il senso del reale”, perché “affrontare realmente (e non solo in teoria) una difficoltà fa crescere” e perché “perdere questo rito non giova alla qualità sociale”.

Non lo so quanto sia vero ma “se esame deve essere” (la Costituzione lo richiama come necessario) sia depurato da “novità a tutti i costi”, schematismi e burocrazie e rimetta al centro la persona, il sapere, la conoscenza critica: sia uno specchio in cui guardarsi, in cui riflettersi non con autocompiacimento, ma con lo sguardo di chi vuole ragionare sui cambiamenti, sulle novità e le vere sfide del futuro.

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