Al via la marcia “Restiamo umani” di John Mpaliza: “Ci siamo messi nelle scarpe dei migranti”

La prima scena che attira la mia attenzione, arrivando al Parco Santa Chiara, è un ragazzo che sventola una bandiera arcobaleno con una grande scritta bianca, “Nonviolenza”, seguita dal disegno di due mani che spezzano un fucile. È uno dei tanti che si sono radunati qui, al punto di partenza di una marcia lunga 123 tappe, per ascoltare John Mpaliza, l'uomo dalla pelle scura e dal coraggio del leone, che sempre ha parole di pace: spesso forti, mai e poi mai scontate, che sanno smuovere le coscienze e denunciare i torti che quotidianamente, nell'indifferenza generale, milioni di deboli subiscono da parte dei forti. A maggior ragione oggi, 20 giugno, Giornata mondiale del rifugiato, occasione per ricordare le storie di tutti i migranti.

Ecco che marciare, pur senza fretta e su comode strade asfaltate, assume un alto e preciso valore, rifletto, non solo simbolico: aiuta a immedesimarsi nelle esistenze di migliaia di persone, nelle loro storie di viaggi disperati, sempre in bilico tra la vita e la morte. Non a caso in inglese si dice If I were in your shoes, se fossi nelle tue scarpe, e non nei tuoi panni, perché camminare è una delle azioni più naturali e significative dell’essere umano. L’obiettivo che spinge anche me, camicia scout azzurra e fazzolettone al collo, a fare strada con John il camminatore è proprio quello che lui esprimerà con parole davvero indovinate, di lì a poco, nel suo discorso: “lavoriamo e creiamo il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente” grida a tutti noi che lo ascoltiamo, ed è subito un fragoroso applauso. Bisogna “chiamare all’azione chi è stanco del clima di paura e odio”, incalza, e conia una sintetica ma efficace definizione: “protesta nonviolenta, resistenza attiva e propositiva”.

“Dovrebbero poter essere a casa loro e stare con i loro cari, godendo delle ricchezze naturali e minerali dei loro Paesi” ricorda poi, riferendosi ai migranti. È nostro dovere, quindi, “lavorare perché possano rimanerci, battendoci per la fine dei conflitti e dello sfruttamento, per il rispetto dell'ambiente e dei diritti umani, per l'istruzione e la pace”.

John ricorda poi che noi, in quanto europei e occidentali, siamo più o meno direttamente responsabili dello sfruttamento del continente africano, e abbiamo il dovere morale di accogliere (citando l'articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che sancisce il diritto di potersi muovere liberamente) chi arriva sulle coste di quella che è ormai diventata la “fortezza” Europa. Racconta che, giunto al termine della marcia a Roma, consegnerà una lettera a Papa Francesco, che spesso ha fatto sentire la sua voce su questi temi: ”Che siate cattolici o no, cristiani o no, il sostegno deve andare a persone, come lui, che si espongono”. )

Poi, al grido di “Restiamo umani!”, il titolo stesso della marcia, il corteo si snoda per le vie della città; sono un allegro brusio, le voci dei bambini che ci seguono, la musica di Dylan e Marley ad accompagnarlo, seguito dagli sguardi di chi si affaccia stupito dalle finestre. Andando a piedi sei lento ma, rifletto, ti fai notare, perché ormai nessuno più cammina per lunghe distanze, e proprio per questo istilli nel passante quella, pur piccola, goccia di curiosità, un seme da cui potrebbe nascere qualcosa.

Passati per il Muse, ci dirigiamo alla Residenza Fersina: in quel luogo isolato, circondato dalle sterpaglie, veniamo accolti nella maniera più semplice e magnifica. Un ragazzo, in piedi su una staccionata, urla a chiunque passi: “Vi amo, vi amo tutti!”. Gli occhi gli ridono.

Lungo la ciclabile verso Mattarello (meta della prima tappa della marcia) cammino guardando la luce del tramonto che pian piano si spegne dietro alle montagne, mentre a sinistra scivola l’Adige caffellatte e a destra scorre l’autostrada. Mi guardo intorno e vedo quanto sia eterogenea questa compagnia di marciatori, quante storie negli occhi di ciascuno. Ogni persona qui è preziosa, è il segno che quanto John dice può funzionare davvero: “Nemmeno tutti gli F35 del mondo assicurerebbero pace e sicurezza, che non si costruiscono con paura, odio né tanto meno armi, ma con il dialogo, la tolleranza e l’amore”.

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