Bababus

“A me piace prendere il bus: senza il biglietto gratis, mica lo prendevo. Ha cambiato un sacco di cose, quel biglietto”

Il vecchio sorride, si lascia andare con la schiena contro lo schienale del sedile e rigira tra le mani il pomolo ben lucidato del bastone.

– Lo sai – dice – che io erano anni che non prendevo il bus? Secoli, quasi, sissignore. L’anno scorso, a ottantatré anni suonati, mi hanno rinnovato un’altra volta la patente. Mi piace guidare e, per tutta la vita, se dovevo andare da qualche parte, prendevo l’auto. Poi arriva questa legge che il bus è gratis per i vecchi. All’inizio non ci ho neanche badato, sai? C’era tutto un gran parlare e a me il parlare non interessa. Io ho avuto fortuna, ho studiato e ho avuto un buon lavoro. Ma spesso un buon lavoro significa dover parlare con un sacco di gente. Era tutto un signora di qua, dottore di là, eh! La pensione non mi piace granché, sai. Ma parlare, quello sì che non mi manca. Adesso non c’è più bisogno di parlar tanto.

Ride:

– C’è anche da dire che adesso mi trovo a blaterare come una pentola di fagioli. Ah ah! Parlo con i cani, parlo con i bambini, parlo anche con le donne e i giovanotti. Non avevo mai parlato con gli sconosciuti, sai? E guardami adesso… – gli brillano gli occhi – anche con te parlo, pensa un po’, perfino con te che tieni un microfono in mano e mi registri! Tutto merito della legge sul bus gratuito. In mezzo a tutto quel parlare che se ne faceva, a me è sorto un ricordo.  Mi sono ricordato che, da ragazzo, avevo questa mania a volte di scappare e prendere il treno. Non per andare da qualche parte, eh? Chi mai conoscevo, fuori città? Nessuno! No, no, così, solo per andare. Mi piaceva guardare dal finestrino, leggere i nomi delle stazioni della Valsugana, sentire dentro le ossa il vibrare tranquillo del vagone tirato dalla locomotiva. E stavo in pace, lì. A volte arrivavo a Borgo, a volte scendevo prima. Poi prendevo il treno indietro e si tornava a casa con le spalle un poco più leggere. Così mi son detto: Bepi, c’hai il biglietto gratis e un sacco di tempo. Certo, il bus non sarà bello come il treno, che se ne va in giro tra tutti quegli orti verdi e le montagne. Ma è pur sempre qualcosa, no? Salta su e vatti a fare un giro. Chissà quello che succede.

Si guarda le mani, sorride alle sue dita:

– Non me lo immaginavo mica, che succedeva questa storia qua, eh! – indica intorno la gente seduta sui sedili dell’autobus, qualcuno sorride, qualcuno ha capito e qualcuno no perché la lingua ancora non la sa.

Riprende:

– Be’, com’è che è andata? Che ho preso il bus e mi è piaciuto. Andavo fino al capolinea in macchina, per sedermi in un posto buono. E poi via, senza fretta, senza responsabilità. Il bravo autista mi scarrozzava per tutta la città. E io potevo stare seduto, tranquillo, a guardare fuori. Ma poi lo sai come va, al terzo giro nella stessa strada, quello che succede fuori diventa un po’ noioso. E allora mi son messo a guardare dentro. È allora che ho visto tutta quella gente.

Aggrotta le sopracciglia:

– Be’, non vederli è impossibile, no? Sono tutti colorati e diversi, portano vestiti strani, fanno uno strano odore – scoppia a ridere, contento della sua battuta – donne nere come il caffé con bambini color melassa attaccati dappertutto, ragazzotti olivastri con le ciabatte di plastica ai piedi tutto l’inverno, signore con veli ricamati d’oro in testa. E tutte quelle buffe lingue. Aicha m’ha spiegato che quando sento dei versi aspirati, pieni di acca, quello è l’arabo. E a me sembra che stiano tirando su per sputare, sai? Aicha si arrabbia, quando glielo dico. Ma solo poco, perché dice che non ci si arrabbia con i vecchi. Poi c’è quella lingua tutta vocali e grida, e quella è la lingua della Nigeria. Il pakistano e l’afghano non li riconosco ancora. Ma tanto riconosco le persone, quindi va bene uguale. Sì, lo so che non si chiamano così, quelle lingue, ma pazienza. Quelli non parlano un grande italiano, sai, se dico cose sbagliate non si scandalizzano.

Il vecchio ridacchia di nuovo, stringendo gli occhi azzurri. Un giro al pomolo del bastone e la storia ricomincia:

– All’inizio mi sentivo un po’ sciocco a guardarli ma sai, quando hai più di ottant’anni, devi stare meno attento a quello che fai, la gente diventa indulgente. Anche alcuni di loro mi guardavano, di rimando. Vedevo tutti i giorni le stesse mamme, gli stessi uomini, ho cominciato a dargli un nome nella mia testa. Ci sono stati i primi sorrisi. Le prime occhiatacce quando qualcuno parlava troppo forte al telefono. Poi sono venute le prime gentilezze, aiutavo con un passeggino, qualcuno mi raccoglieva il bastone che mi era caduto. A rompere l’imbarazzo sono stati i bambini. O forse sono stato io. Sono tanti, belli, rumorosi, buffi, questi bambini. Ho cominciato a portare caramelle. Le madri e i padri non erano diffidenti. Li esortavano a prenderle e ringraziavano dimenticando sempre qualche vocale.

Com’è andata che abbiamo cominciato a chiacchierare? Sinceramente, non lo saprei neanche io. Da vecchi ci si scorda le cose. Ci si scordano i nomi ma loro non me ne vogliono se glieli chiedo tante volte. Tanti, li conosco a malapena. Un sorriso, un cenno della mano, un saluto. Altri, sono quasi degli amici. Aicha, se non le tengo il posto di fianco a me, si offende. A Mondol, che va al lavoro alle 8.17, gli fa sempre piacere farmi vedere le foto nuove dei suoi bambini che gli ha inviato la moglie. Khan non parla, ma ascolta me e Aicha parlare e sorride.

Il vecchio sospira:

– Ci passa poco tempo dalle caramelle alle confidenze, sai? Io che prendevo il bus solo per guardare il paesaggio, adesso mi capita di restarci male che siamo arrivati al capolinea, perché sono tutto intento ad ascoltare dell’inondazione che ha colpito un villaggio lungo il Gange. Mi raccontano delle famiglie a casa e delle famiglie che hanno qui, dei bambini che si ammalano e di quelli che imparano a parlare, del lavoro che facevano un tempo e di quello che fanno ora. Mi chiedono come si dicono le cose e poi se lo segnano sul telefono. Quando non ci capiamo, usano quella diavoleria per tradurre le parole e mi trovo ad ascoltare lo schermo che esclama “biancheria!” in mezzo al bus.

Ridacchia e scuote il capo:

– Io non sono un gran chiacchierone, sai? Adesso, tra tutto il blaterare che sto facendo con te e il blaterare di cui ti sto raccontando, scommetto che non ci credi. Ma il più è stato fare amicizia con Aicha, lei sì che sa chiacchierare. Quando vede qualcuno che conosce, lo convoca a gran voce davanti al nostro trono, il posto da due con lo spazio per le carrozzine davanti. Gli fa le domande e quello risponde, io finisco per dare le caramelle anche agli adulti e loro ci raccontano cosa stanno andando a fare e cosa si sono mangiati a colazione. Non parlo mica solo con gli stranieri, eh? A me che mi frega da dove viene la gente, basta che abbia voglia di prendersi una caramella e di fare quattro chiacchiere. È un caso, che quasi tutti siano gente di fuori. Secondo me è perché prendono tanto l’autobus. O forse perché hanno più voglia di parlare. E di caramelle.

È la prima volta che lo interrompo. Qui il tempo passa e la parte più interessante della storia ancora non me l’ha raccontata:

– Sì, signor Pordon, ma com’è che ha iniziato con i biglietti? Chi le ha dato il suo soprannome?

Lui aggrotta le sopracciglia:

– Come vuoi che abbia iniziato, coi biglietti? Che ogni tanto qualcuno non ce l’aveva. A volte era un nuovo arrivato senza una lira in tasca, o qualcuno che attaccava briga con il controllore, quanto mi fa arrabbiare! Ma la maggior parte era gente che avevo già visto e stavano lì con la testa abbassata, vergognosi. A me indisponeva tutta quella faccenda. Mi sentivo scomodo, capisci? A disagio. Allora glielo pagavo io, il biglietto. Piano piano, con alcuni di loro, è diventata una cosa abituale. Bibiane deve portare i gemelli alla scuola materna, perché le hanno detto che sempre a casa con lei non stanno bene, non si fanno gli amici e non imparano la lingua. Ma lei un lavoro non ce l’ha ancora e chi glielo paga il biglietto, se non io? Uguale per Mondol, che fa un tirocinio di tre mesi nella fabbrica del latte, ma non lo pagano. Se lo assumono, mi ha detto, se li comprerà lui i biglietti. Ma ora glieli compro io, se no come ci arriva, al lavoro? Ce ne sono un bel po’ di storie così. Per questo salgo la mattina con un bel fascio di biglietti in tasca, freschi di stampa. Ma non dovete pensare che tutta questa storia del bus giri intorno ai biglietti. Aicha se li paga da sola e anche Robert, e tutti quegli altri che hanno un lavoro o una famiglia. Questa storia del bus è più per stare insieme, chiacchierare, salutarsi. Certo, a volte le cose prendono una brutta piega. Una volta un tizio mi ha gridato contro perché voleva un biglietto ma tutti quanti sapevano che poteva pagarlo. Non è servito neanche che alzassi le sopracciglia, gliel’hanno detto Khan e John, di fare meno lo splendido.

– Ma quindi secondo lei è giusto fare la carità con i biglietti? – chiedo, seguendo i miei appunti – i poveri italiani non se lo meritano, di avere uno che gli paghi il bus?

Il vecchio s’adombra in un cipiglio irato:

– Ma che è, non lo capisci neanche tu l’italiano? – si volta verso la signora con il velo, che gli poggia una mano sopra il braccio – lo senti questo, non gli ho già detto che a me non frega nulla del colore di chi prende il bus? – poi si gira verso di me – mi hai sentito ragazzino? Pure i giovani adesso sono duri di orecchie. Tutti a dirmi che devo dare i biglietti agli italiani. Che si accomodino! Ci sono un paio di papà e di mamme che prendono il bus con me e che mi parlano. Non tanti, eh? Un paio. Finora non hanno avuto mai bisogno ma se capitasse, certo che glieli pagherei! L’altro giorno c’era una ragazzina bianca come il latte che aveva dimenticato l’abbonamento a casa e stava per piangere, tre gliene ho dati, di biglietti!

Il vecchio si calma e incrocia le mani in grembo, sempre stringendo il bastone:

– Tutta questa gente che mi dice che devo fare con i miei soldi. Io li ho guadagnati, io li spenderò pur come mi pare! I biglietti servono ad andare in giro per fare le cose che si devono fare. Qualcuno è troppo povero per permetterseli, ma le cose le deve fare lo stesso. È un bel problema, questo, non lo vedi? Per questo ci sono qui io.

– Bababus – sorrido io.

Anche lui sorride e gli passa l’irritazione:

– Bababus, esatto. È così che mi chiamano, ormai. Loro il mio nome se lo ricordano tutti. Bella grazia, sono giovani, loro.

Cade il silenzio, mentre il vecchio riflette. Sono soddisfatto e faccio per mettere via la mia attrezzatura. Lui mi guarda e gli guizza una luce negli occhi:

– Non così in fretta, ragazzino, c’è ancora una cosa che ti devo dire.

Aspetto paziente, tendendo verso di lui di nuovo il mio microfono. Lui sembra pensieroso, arruffa i baffi mentre cerca le parole.

– C’è solo una cosa che non torna, in tutto questo. In questa faccenda dei biglietti e degli stranieri e delle caramelle. Ed è che, secondo me, non dovrei essere io a pagargli i biglietti, a loro. Mi spiego, io voglio bene a questa gente, mi stanno simpatici, voglio fargli dei regali. E se io voglio fare un regalo, regalo qualcosa di bello, no? Qualcosa che ti fa fare un sorriso. Ma qui è in ballo ben altro: la scuola dei bambini, un possibile contratto di lavoro, andare dal medico o a rinnovare i documenti. Questa roba qui è necessaria, mica un di più, uno sfizio. E la roba necessaria dovrebbe dargliela lo stato, alla gente. Stanno qui, sono poveri ma ci stanno provando. Mica tutti, eh? L’ho già detto. Ma tanti sì. Ora, senza biglietto del bus, come ci provano? Come ci vanno, nei posti in cui devono andare? Come se la cambiano, questa loro vita?

Bababus sospira, cerca il sorriso di Aicha per tirarsi su e lei gli batte dolcemente sopra il braccio.

– A me piace prendere il bus – riprende lui, lo sguardo un po’ smarrito – senza il biglietto gratis, mica lo prendevo. Ha cambiato un sacco di cose, quel biglietto. Eppure ora come fa tutta questa gente? Senza di me, che mi son messo in mezzo, sarebbero tutti quanti fregati. Per questo mi chiedo, non sarebbe meglio per tutti se io, a loro, gli regalassi solo sorrisi e caramelle, e alle robe necessarie, vitali, ci pensasse qualcun altro? Non sarebbe meglio se noi stessimo qui, a chiacchierare tutti rilassati, perché in bus possono andarci gratis anche loro?

Angela Tognolini

vitaTrentina

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