Giro del mondo al tempo del coronavirus

Bambini a Gaza. Foto Afp/Sir

Come vivono l’impatto del coronavirus che ha inondato il pianeta, popolazioni di diverse aree geografiche nel mondo? Quali sono le condizioni materiali di partenza per affront

Bambini a Gaza. Foto Afp/Sir

Bambini a Gaza. Foto Afp/Sir

are la malattia? Esaminiamo alcune situazioni sociali e geografiche che appaiono paradigmatiche di realtà complesse e diffuse.

Gaza: dove l’acqua corrente è un lusso

La Striscia di Gaza si trova in una situazione di quarantena vera e propria da 14 anni. In questo fazzoletto di terra (360 km quadrati) vivono circa 2 milioni di persone, una consistente parte delle quali ammassate in campi profughi con la più alta densità abitativa al mondo.

In un simile contesto il distanziamento tra le persone risulta impossibile. Le autorità della Striscia sono perfettamente consapevoli che l’unica possibilità che hanno a disposizione è la prevenzione. I casi di malattia dovuta al virus finora sono pochi, ma dopo i primi casi Hamas ha predisposto la chiusura di caffè, trattorie, scuole e moschee. Ha osservato Ghada al-Jadba, direttore sanitario dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi, di Gaza: “Le strutture sanitarie e lo staff medico sono impreparate e insufficienti per affrontare una grave epidemia. Oltretutto, se scarseggiano mascherine e dispositivi di protezione in Europa, figuratevi qui. Stiamo provando a convertire alcune industrie per produrre mascherine, ma è difficile reperire anche le materie prime”.

Con l’embargo tuttora vigente (embargo che fino ad ora ha preservato dal contagio, ma che comunque per Gaza è una maledizione, una remora ad ogni possibilità di sviluppo e dignità umana); con una povertà dilagante; con la carenza di attrezzature negli ospedali e nei presidi sanitari periferici; con l’acqua corrente che è un lusso che pochi si possono permettere; con abitazioni povere e strette dove dormono anche sei, sette persone in una stanza in queste settimane Gaza sta col fiato sospeso e spera di essere preservata dalla malattia. Le misure si stanno facendo stringenti e comunque la popolazione molto giovane dovrebbe risultare decisiva nel contenere gli effetti, insieme al clima molto caldo.

Giordania: il distanziamento sociale ha funzionato

“Qui in Giordania per fortuna le misure di social distancing e confinamento in casa sono state prese in fretta dal governo dal 16 marzo scorso e quindi finora ci sono stati pochi casi (circa 400) in tutto il Paese e 0 (per fortuna!) tra i rifugiati”, dice Francesco Bert, trentino, operatore dell’Agenzia Onu per i rifugiati in Giordania. “Il governo ha rassicurato che tutti i cittadini presenti sul territorio, compresi i rifugiati, seguiranno i protocolli nazionali in tema di coronavirus nel caso ci fossero casi confermati”.

“Anche noi come UNHCR – prosegue – abbiamo aumentato le misure igieniche preventive, soprattutto nei due campi profughi di Zaatari e Azraq. Secondo me i rifugiati in questa crisi si sono dimostrati particolarmente resilienti, capaci cioè di far capire l’importanza delle misure igieniche nelle loro comunità e condividendo le magre risorse a disposizione tra più famiglie. Dopo oltre un mese di confinamento a casa, però, gli effetti della crisi economica, molto più pressante di quella sanitaria, si fanno sentire, e moltissimi hanno perso le possibilità di lavoro nell’economia informale/lavoro giornaliero che permettevano loro un ingresso economico. Dal 19 aprile parti del Paese hanno cominciato a riaprire, gradualmente. Speriamo che l’economia possa ripartire e che i rifugiati ne possano beneficiare a loro volta”.

Haiti: si spende in armi, non per la sanità

Ad Haiti la gente sembra attendere l’ennesima catastrofe in una terra che pare dannata. Dopo il terremoto del 2010 con circa 200 mila vittime, il devastante uragano Mattew del 2016 e la terrificante epidemia di colera che non si sa neppure quante migliaia di vittime abbia mietuto, il Covid-19 è atteso quasi con rassegnazione.

Il presidente Jovenel Moise ha recentemente investito un bel pacchetto di dollari (finanziamenti degli Stati Uniti) per rinsaldare gli apparati repressivi con l’acquisto di armi assai sofisticate, mentre i pochi ospedali sono fatiscenti e privi di quasi tutto, se non fosse per la Cina che rifornisce di strumenti sanitari, e per gli aiuti internazionali che incidono per 2/3 sul budget sanitario. E comunque anche qui è solo il 23% della gente ad avere accesso ad acqua e sapone: lavarsi le mani è un lusso.

Indonesia: in attesa del Ramadan

In Indonesia, il quarto Paese più popoloso al mondo, con i suoi quasi 300 milioni di abitanti, la sfida dei prossimi giorni sarà quella di gestire il Ramadan: di solito per il mese del digiuno sono solite spostarsi tra i 20 e i 30 milioni di persone. Finora, invece di vietare i viaggi, il governo si è limitato a raccomandare che chi partecipa ai pellegrinaggi al rientro a casa faccia la quarantena! La medesima preoccupazione si riscontra in tutti i paesi musulmani.

E poi c’è tutta l’Africa.

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