Quelle “anime nere” a casa della Lubich

In una storica foto di Gianni Zotta, Chiara Lubich nel 1991 davanti all’ingresso della “casetta” di piazza Cappuccini, alla Cervara

Nessuna accusa circostanziata, ma qualche allusione evidente. E alcune omissioni e semplificazioni. Il risultato finale è un’ombra che viene gettata sulla figura di Chiara Lubich, la fondatrice trentina del movimento dei Focolari. Ha fatto discutere l’ampia recensione che Paolo Mieli ha dedicato nell’edizione del 20 aprile del Corriere della Sera ad “Anime nere. Due donne e due destini nella Roma nazista” (Marsilio), il libro di Anna Foa e Lucetta Scaraffia che affronta le figure di Celeste Di Porto ed Elena Hoehn.

Accomunate dalla conversione al cattolicesimo (ebrea romana la prima, protestante nata in Germania la seconda), dopo essersi incontrate nell’immediato dopoguerra, entrambe hanno conosciuto e frequentato Chiara Lubich nel 1948. Ed è proprio attraverso queste relazioni che vengono fatte allusioni sulla Lubich, per la quale è in corso la Causa di beatificazione, come non manca di ricordare Mieli.

Bella, al punto da guadagnarsi l’appellativo di “Stella del Ghetto”, Celeste Di Porto è una figura sulla quale sono stati spesi già numerosi studi. Durante il Ventennio trovò lavoro in una trattoria frequentata dai fascisti. Qui incontrò Vincenzo Antonelli, con il quale collaborò – questa l’accusa che poi la porterà a processo alla fine del conflitto – nella cattura degli ebrei romani in cambio di denaro. Un ruolo che spingerà gli stessi abitanti del Ghetto a ribattezzarla “Pantera nera”. Processata, con grande risalto della stampa, fu condannata a dodici anni di carcere, che iniziò a scontare alle Mantellate (in realtà – sottolinea Mieli – la detenzione durò appena tre anni a seguito delle amnistie).

Proprio in cella conobbe Elena Hoehn. Anche Elena – che secondo le autrici del libro ebbe una conversione tutt’altro che cristallina all’inizio degli anni Trenta – si portava sulle spalle un passato con ombre pesanti. Alla fine del conflitto, infatti, fu accusata di spionaggio a favore dei nazifascisti. La Hoehn nel 1943 ospitò, con il marito Luigi Alvino, Giovanni Frignani, fratello di Giuseppe, ex amante di Elena e potente deputato fascista. Giovanni era un ufficiale dei Carabinieri che, su ordine di Vittorio Emanuele III, partecipò all’arresto di Mussolini. Frignani venne trovato nel nascondiglio e catturato, un episodio che portò poi ad altri arresti che si conclusero con l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Ed Elena Hoehn fu appunto accusata della “spiata”. Il processo si concluse con un’assoluzione, nonostante gli “indizi innumerevoli”, scrive Mieli.

Il quale sottolinea come la Hoehn sbandierò a proprio favore la conversione di Celeste Di Porto, che il 21 marzo del 1948 venne battezzata dal vescovo di Assisi. Proprio quest’ultimo ebbe poi un ruolo non indifferente nell’incontro tra le due donne e Chiara Lubich. Quello che però Mieli non scrive – e non è un dettaglio di poco conto è che vescovo di Assisi era all’epoca il benedettino, trentino di Villazzano, Giuseppe Placido Nicolini. Non un nome qualsiasi: Nicolini, infatti, nel 1977 (anno della sua morte), è stato riconosciuto “Giusto tra le nazioni” da Israele per aver salvato centinaia di ebrei, nascosti nei sotterranei di Assisi. Insomma, non certo una figura che possa aver accolto superficialmente “a braccia aperte” (così scrivono le due autrici) Elena Hoehn e Celeste Di Porto. Fu il vescovo a chiedere a Chiara Lubich, allora agli albori della sua esperienza dei “focolari”, di ospitare nel 1948 le due donne a Trento nel primo storico focolare in piazza Cappuccini, 2 la casetta della Cervara: nel clima elettorale di quell’anno, infatti, entrambe rischiavano per il loro passato di essere oggetto di vendette.

Nella titolazione della recensione, poi, Chiara Lubich viene definita “dirigente cattolica”. Ma all’epoca dei fatti narrati, la fondatrice del movimento era una giovane carica di ideali, ma davvero molto lontana – temporalmente – da quel ruolo di leader spirituale che le venne riconosciuto, anche fuori dai confini della Chiesa cattolica.

Secondo Foa e Scaraffia, Elena Hoehn non fu mai sincera con Chiara Lubich, nascondendole il suo passato: “E le due storiche si domandano come mai — dal momento che «i santi dovrebbero leggere nel cuore delle persone» — Chiara Lubich non riuscì ad accorgersi della «falsità di Elena», scrive infine Mieli. Passaggio stonato che, francamente, lascia quantomeno perplessi.

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