L’omertà di casa nostra e il coraggio di Livatino

Rosario Angelo Livatino, il magistrato ucciso dalla mafia e beatificato domenica scorsa. Foto Sir

Domenica 9 maggio è stato beatificato ad Agrigento il giudice Rosario Livatino ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990. Un momento di festa intenso e commovente. E di riflessione. Anche per noi trentini, alle prese con una inquietante inchiesta della Procura sulle infiltrazioni della ‘ndgrangheta, una delle mafie più pericolose, nella nostra società. La mafia non è qualcosa di lontano. C’è anche nel nostro territorio. In maniera ancora limitata, ma pericolosa e “consolidata”, come ha dichiarato il capo della Procura di Trento Sandro Raimondi. E come ci ricordano da tempo la Direzione Investigativa Antimafia (Dia) e alcune encomiabili inchieste giornalistiche, soprattutto del mensile “Questotrentino” che sta pubblicando numero dopo numero rilevanti atti dell’indagine “Perfido” della Procura trentina.

I settori del porfido e del turismo sono i più esposti. La mafia compra, corrompe, ha rapporti col mondo economico, politico e perfino giudiziario. Sottovalutarla vuole dire aprirle la strada ancor di più, come è accaduto in Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta, Veneto dove ha raggiunto livelli più che allarmanti. La Lombardia è al quarto posto, dopo Sicilia, Campania e Calabria, per numero di immobili confiscati alle mafie. Il “sano” Nord non esiste. La storia di Rosario Livatino e la sua morte sono un monito anche per noi. Aveva 38 anni quando fu ucciso. Era un fervente cattolico e un integerrimo servitore dello Stato.

Il 18 luglio 1978, quando prestò il giuramento da magistrato, scrisse nella sua agendina: “Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e comportarmi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito esige”. Fu fedele al giuramento. Non come quei magistrati del Tribunale di Trento che, si è scoperto, andavano a cena con personaggi inquisiti per mafia. Livatino era sostituto procuratore ad Agrigento e viveva a Canicattì. E proprio nello stesso edificio dove abitava viveva anche il boss mafioso locale. Livatino, per non incontrarlo, si era fatto costruire un’entrata indipendente, come ha ricordato il giornalista Francesco La Licata. Altro che cortesie e omertà. Non guardò in faccia a nessuno del suo paese dove l’omertà dominava.

E quanta omertà c’è in Trentino, ad esempio attorno alle cave di porfido, o nel turismo o nell’agricoltura? O nella politica, dove le voci che si fanno sentire sono quasi inesistenti? A destra come a sinistra? Livatino aveva già ottenuto notevoli risultati nelle inchieste sui cavalieri del lavoro di Catania, sulle illegalità e gli sperperi dell’ospedale di Agrigento, sul trafficante di armi Giuseppe Milazzo e, soprattutto sui rapporti ad Agrigento tra mafia e politica. Per lo più politici democristiani.

Nessuno prima di lui aveva osato tanto. Ecco perché i genitori di Livatino non perdonarono mai al presidente della Repubblica di allora, Francesco Cossiga, di aver attaccato i giovani giudici, chiamandoli ironicamente “ragazzini”, perché volevano “condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga”. Livatino era un leone, non un “beatino”, le pecore erano i magistrati più anziani che piacevano tanto a Cossiga. E che non avevano mai visto la mafia. Per un cattolico coraggioso ucciso dalla mafia, come Livatino, c’erano centinaia, migliaia di cattolici, dentro e fuori la politica, che facevano finta di non vedere o che erano complici dei mafiosi.

Beatificare Livatino vuol dire ricordare anche questo perché anche oggi è così. Anche oggi troppi cattolici fanno finta di non vedere o sono complici. Vale anche per tutti, anche per i non credenti, s’intende. Ma la Chiesa ha beatificato Livatino e questo deve pur voler dire qualcosa. Qualcosa di terribilmente serio. Per i suoi rapporti con personaggi in odor di mafia, il presidente del Tribunale di Trento, Guglielmo Avolio è stato rimosso dal Consiglio Superiore della Magistratura perché “magistrato obiettivamente squalificato”. Ma la gravissima vicenda coinvolge altri personaggi e ambienti. C’è da sperare che la Procura di Trento – che con l’inchiesta “Perfido” (‘ndrangheta nel porfido) sta facendo onore al giuramento e alla memoria di Livatino – vada fino in fondo. E che i trentini combattano, rifiutando ogni omertà e ogni copertura per quieto vivere, questi pericolosi radicamenti mafiosi. Prima che sia troppo tardi.

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