Dopo Elisabetta, tra spinte secessioniste e nazionaliste

La regina Elisabetta – foto ANSA/Sir

Al di là dell’agiografia di rito che accompagna i lunghi giorni delle onoranze funebri di Elisabetta II e che tende a mettere in luce la straordinarietà di un regno durato oltre 70 anni, vale anche la pena sottolineare gli elementi caratterizzanti dell’azione “politica” della regina del Regno Unito. A nostro avviso gli aspetti più interessanti sono tre.

Il primo riguarda l’evoluzione del Commonwealth, il secondo i rapporti della monarchia inglese con l’Unione europea e il terzo, forse più rilevante, la tenuta politica e istituzionale dello stesso Regno Unito. L’avvio del regno di Elisabetta, nel lontano 1952, coincide con la disgregazione progressiva, ma anche particolarmente rapida, dell’impero inglese, il più esteso del mondo. Nei primissimi anni della sua attività monarchica, Elisabetta si è infatti vista costretta a firmare la bellezza di 38 decreti di indipendenza delle sue colonie. Tuttavia i legami con l’ex-impero sono rimasti fortissimi ed Elisabetta ha dedicato gran parte della sua vita a coltivare i rapporti con i 56 stati, ormai indipendenti, inglobati nel Commonwealth. Perfino nel giorno della morte di suo padre, re Giorgio VI, Elisabetta si trovava in Kenya, già possedimento inglese, in visita ufficiale. E continuerà su questa strada sia per mantenere viva la tradizione imperiale dell’Inghilterra sia per favorire i ricchi rapporti economici e commerciali con le colonie di un tempo. Di questi 56 paesi ben 14 riconoscono ancora oggi il monarca inglese come proprio capo dello stato. Ma già negli ultimi anni del regno di Elisabetta si sono manifestati movimenti politici di contestazione di questa anomala forma di “dipendenza” dalla Monarchia londinese. Ed oggi con la morte di Elisabetta e con la scomparsa del suo indubbio prestigio sarà molto probabile che attraverso dei referendum si decidano delle modifiche istituzionali in senso repubblicano. Già si avvertono segnali in questa direzione nei Caraibi, nelle Barbados, nel Belize e in Giamaica. Sarà quindi difficile per l’erede Carlo III, nominato già da alcuni anni a capo del Commonwealth, riuscire a bloccare tali richieste di riscatto dalla monarchia.

Ma è abbastanza evidente che, soprattutto dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, il mantenimento di forti rapporti con l’istituzione multilaterale rappresentata dal Commonwealth finisce per diventare per Londra più che mai vitale.

Il che ci porta al tema del ruolo di Elisabetta nei confronti dell’Europa comunitaria. Un rapporto mai realmente entusiasta, anche se sempre corretto. Con Elisabetta la Gran Bretagna entra nel 1973 nella Comunità europea di allora, dopo una lunghissima anticamera. In effetti Londra, che si era rifiutata di imbarcarsi fin dall’inizio nella Cee nata nel 1957, si era pragmaticamente pentita di fronte ai successi iniziali della Comunità. Gli inglesi hanno quindi bussato più volte alla porta della Cee per entrarvi a fare parte. Sarà il Generale De Gaulle, preoccupato dal ruolo “imperiale” dell’Inghilterra, ad opporvisi. Solo dopo la sua scomparsa inizieranno i negoziati fra Bruxelles e Londra. Ma bisognerà aspettare fino al 12 maggio del 1992 per assistere ad un atto di formale adesione della Corona inglese alle istituzioni comunitarie. L’evento risale al discorso di Elisabetta al Parlamento europeo per celebrare l’avvenuta firma del Trattato di Maastricht, che diede vita ufficiale all’Unione Europea.

Di fronte ai deputati di Strasburgo la regina fece un discorso di convinta adesione al futuro dell’Unione, ma con una forte sottolineatura dell’importanza delle nazioni come elemento indispensabile: “dobbiamo preservare la ricca diversità dei paesi europei, perché se questa diversità viene soppressa indeboliamo l’Europa, non la rafforziamo”. Posizione ambigua quasi sempre sostenuta dai governi di sua Maestà, che portata alle estreme conseguenze, dopo diverse deroghe per Londra (ad esempio il non partecipare all’Euro), si è conclusa nel dramma della Brexit, che volente o nolente è stata firmata da Elisabetta nel 2020. Ma proprio il ruolo “nazionalista” dei diversi governi di Londra nei confronti del processo di integrazione europea ha creato un terzo e forse più grave problema all’esistenza stessa della monarchia inglese. Sulla prospettiva di un progressivo allontanamento di Londra da Bruxelles si è infatti svolto nel 2014 un primo referendum in Scozia per richiedere il distacco di quella ricca regione dal Regno Unito. Come è noto, allora il referendum dette un responso negativo e molti videro nel carisma di Elisabetta una delle ragioni del fallimento. Ma oggi, dopo la sua morte, la premier scozzese Nicola Sturgeon ha dichiarato di volere riproporre nel 2023 un altro referendum per permettere alla Scozia di riacquistare la propria storica indipendenza e negoziare quindi con l’UE l’adesione di quel paese. Analoghe tendenze secessioniste si manifestano nel Galles. Mentre nell’Irlanda del Nord i protestanti filo inglesi sostengono la monarchia per evitare il pericolo della riunificazione con il sud.

Insomma Carlo III dovrà gestire un’eredità molto pesante su tutti e tre i fronti, ma è abbastanza evidente che quello prioritario sarà quello interno, sulla cui tenuta si gioca davvero il futuro della monarchia inglese e del suo ruolo di grande potenza nel mondo. Segnali di debolezza e difficoltà che già si erano manifestati sotto Elisabetta, ma che ora con la sua scomparsa rischiano di aggravarsi e di portare ad un ulteriore indebolimento del Regno Unito.

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