Nei Balcani un altro focolaio di tensioni

A Prizen cartelli multilingue in lingua albanese, serba e turca Foto Wikipedia

L’attenzione del mondo è ancora tutta concentrata sul conflitto scatenato da Vladimir Putin, ma c’è un altro focolaio di tensione, quello fra Serbia e Kosovo, che non solo minaccia di trasformarsi in conflitto armato, ma che in qualche modo è legato all’andamento delle vicende ucraine.

Dopo quasi un anno e mezzo di brutale guerra contro l’Ucraina, l’attenzione del mondo e dell’Europa è ancora tutta concentrata sul conflitto scatenato da Vladimir Putin. Ne sono prova sia le preannunciate controffensive militari di Kyiv sia i tentativi di pace in essere, fra cui la missione della Chiesa cattolica affidata da papa Francesco al cardinale Matteo Maria Zuppi.
Ciò non dovrebbe tuttavia distrarci da un altro focolaio di tensione, quello fra Serbia e Kosovo, che non solo minaccia di trasformarsi in conflitto armato, ma che in qualche modo è legato all’andamento delle vicende ucraine.

Anche in questo caso, infatti, troviamo da una parte l’Occidente schierato per lo più in sostegno del Kosovo e dall’altra la Russia che sostiene le ragioni della Serbia e che sarebbe ben contenta di impegnare l’Europa sul fronte meridionale. In generale è bene ricordare come i Balcani continuino ad essere una potenziale fonte di instabilità dopo il dissolvimento della Jugoslavia nel 1991 e la nascita delle repubbliche che costituiscono l’intera regione: nascita fin dall’inizio sanguinosa e contrastata, a cominciare dalla guerra fratricida in Bosnia-Erzegovina in cui Croazia, Serbia e Bosnia sono rimaste invischiate per anni fino al precario Accordo di Dayton (1995). Accordo giudicato da tutti un obbrobrio burocratico con tre Presidenti in contemporanea e tutte le altre istituzioni pubbliche con tre distinte teste, fonte di inefficienza e corruzione.

Vi è quindi il timore di una ripresa del conflitto anche alla luce di alcune soluzioni inquietanti come l’attribuzione al territorio della Serbia di Szebrenica, città tristemente nota per il genocidio dei bosniaci musulmani ad opera dei serbi cristiani. Oggi questo confronto violento fra religioni, musulmani di origine albanese e cristiani ortodossi serbi si sta riproducendo nel Kosovo, piccola repubblica democratica resasi indipendente dalla Serbia solo nel 2008 dopo avere respinto, addirittura con l’intervento militare diretto della Nato nel 1999, la volontà di Belgrado di soffocarne nel sangue le richieste autonomiste. Come è noto il Kosovo è un paese estremamente piccolo di 1,8 milioni di abitanti e con una minoranza serba di centomila persone nella parte nord del paese, nei pressi della confinante Serbia. Quest’ultima, come è ovvio, non ha mai riconosciuto il Kosovo quale nuova entità statuale autonoma e ha continuato a sostenere con tutti i mezzi, leciti e illeciti, il proprio gruppo etnico concentrato in quattro città del territorio kosovaro.

È proprio in queste cittadine che si è consumata l’ultima sfida fra Pristina e Belgrado: il 23 aprile si sono infatti tenute le elezioni per i quattro sindaci. Peccato che alle urne si sia presentato appena il 3,5% degli aventi diritto al voto e solo quelli di etnia albanese. I serbi, che lì sono schiacciante maggioranza, si sono astenuti in massa dal voto per varie ragioni ma soprattutto per ordine del governo di Belgrado. Sono quindi risultati eletti solo i candidati kosovari. Con un certo disprezzo delle regole di rappresentanza democratica, il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, ha deciso che i quattro dovevano essere insediati utilizzando la polizia di stato per proteggerli. Di qui la reazione dei cittadini serbi che hanno messo a ferro e fuoco la cittadina di Zvecan e hanno duramente colpito anche la forza di interposizione della Nato, la Kfor, ancora presente in quel paese per controllare i difficili rapporti fra le due etnie. Di qui il ferimento di una trentina di militari europei, fra cui undici nostri alpini, e l’imbarazzo del loro comandante il generale Angelo Michele Ristuccia per l’opacità e la scorrettezza dei giochi politici fra vertici di governo di Serbia e Kosovo. Sono giochi estremamente pericolosi, resi ancora più ambigui dal posizionamento divisivo della comunità internazionale: solo 101 dei 193 membri delle Nazioni Unite riconoscono il Kosovo come paese sovrano e anche all’interno dell’Unione europea ben 5 paesi sui 27 non hanno scambiato gli ambasciatori con Pristina.

Sullo sfondo, ancora una volta, si staglia la figura di Mosca che sostiene a spada tratta le ragioni nazionalistiche e storiche di Belgrado. Infatti, il governo serbo e i leader di quel paese considerano il Kosovo come l’atto di nascita della grande Serbia. Si rifanno addirittura alla battaglia di Kosovo Polje del 1389 quando le milizie cristiane guidate dai condottieri serbi riuscirono a bloccare per un po’ l’avanzata impetuosa dei turchi ottomani, che negli anni successivi riuscirono tuttavia ad arrivare alle mura di Vienna. È su questi fatti che si è sviluppato il nazionalismo serbo e la sua pretesa di considerare il Kosovo propria inalienabile parte.

Per affievolire la forza dei due nazionalismi, Kosovaro e Serbo, la soluzione potrebbe essere quella di un deciso intervento dell’UE. Intervento, non solo di mediazione diplomatica fra le parti, che dovrebbe costituire una priorità assoluta per Bruxelles, dal momento che i Balcani sono “il cortile di casa” dell’Unione. In effetti, come hanno dimostrato le storie di successo di Croazia e Slovenia oggi membri dell’Unione, l’UE ha un’arma potentissima per attenuare gli eccessi nazionalistici: l’allargamento agli stati dei Balcani. Purtroppo, oggi questa politica è puramente retorica e fonte di frustrazioni per i paesi interessati a farne parte, come il Kosovo e perfino la Serbia, che per quanto legata alla Russia ben comprende i vantaggi di un’adesione all’UE. Ma sotto il cielo delle politiche di allargamento dell’Unione oggi regna il caos. Da una parte si promette, per ovvi motivi, ad Ucraina e Moldavia di accelerare oltre le normali regole le pratiche per l’adesione, dall’altra si erigono ostacoli di ogni tipo per rallentare le richieste che vengono dai Balcani.

Non ci si rende ancora conto, come dovrebbe insegnarci la storia, che i Balcani sono una vera polveriera e che solo la grande generosità di un’efficace e credibile politica di allargamento dell’UE può allontanare gli spettri di nuovi conflitti ai nostri confini.

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