Biden e Xi Jinping, finalmente riparte il dialogo

Il Presidente Usa, Biden, e il Presidente cinese Xi Jinping. Foto d’archivio (da Wikipedia)

Il persistente rumore di fondo delle guerre di Ucraina e di Gaza ha quasi fatto passare in secondo piano l’incontro a San Francisco fra il Presidente americano Joe Biden e quello cinese Xi Jinping. Eppure, che i due leader delle massime potenze mondiali si parlassero non era per nulla scontato.

È da oltre un anno, infatti, che la tensione fra Pechino e Washington non accenna a diminuire. Il “casus belli” era nato nell’agosto del 2022 con la visita a Taiwan dell’ex presidente del Senato americano Nancy Pelosi: una provocazione per Xi Jinping che dell’appartenenza dell’isola alla Cina ha fatto uno dei capisaldi della sua politica interna e internazionale. Un’inutile provocazione, sconsigliata persino dalla stessa Casa Bianca, che aveva provocato imponenti manovre militari di Pechino intorno e sopra Taiwan in aperta sfida con le autorità locali e con i “protettori” americani.

Da allora la tensione non ha fatto che crescere prima con il completo sostegno politico del presidente cinese all’aggressione di Vladimir Putin nei confronti dell’Ucraina e in tempi più recenti attraverso la mediazione di Pechino nel favorire la ripresa dei rapporti diplomatici fra Iran e Arabia Saudita mettendo a rischio la politica americana, inaugurata da Donald Trump, di creare forti rapporti fra Riad e Gerusalemme in chiave anti-iraniana (i cosiddetti Accordi di Abramo). A fare saltare questa prospettiva ci hai poi pensato Hamas con il suo attacco terrorista e la conseguente reazione sproporzionata di Israele. Ma al di là di questi ultimi drammatici episodi sia a Washington che a Pechino era ormai apparso chiaro che l’insieme del sistema internazionale era sul punto di rottura e che un’azione di diminuzione della tensione fosse più che mai necessaria. In effetti già l’invasione russa dell’Ucraina aveva assestato un colpo quasi mortale al diritto internazionale e a quel poco di multilateralismo (l’Onu) che ancora esiste.

Oggi il conflitto mediorientale, oltre al rischio di un suo allargamento, mette in profondo imbarazzo Joe Biden indebolendone le chances di rielezione il prossimo anno. Sarebbe per lui davvero insopportabile doversi caricare di un altro conflitto magari intorno alla difesa di una Taiwan attaccata dall’esercito di Pechino. Dall’altra parte, se davvero la guerra mediorientale dovesse estendersi ad altri Paesi arabi le conseguenze sul mercato dell’energia e sulla tenuta dell’economia mondiale potrebbero essere disastrose per tutti, Cina compresa. Ed in effetti anche Pechino ha oggi i suoi problemi interni. L’economia del post-Covid non ha avuto il rimbalzo che tutti si aspettavano. La disoccupazione giovanile ha toccato punte del 21% e gli investimenti esteri, soprattutto americani, hanno cominciato a diminuire massicciamente. Ultimamente poi si sono manifestati anche problemi politici interni al pur controllassimo sistema comunista: in breve tempo sia il ministro della difesa che quello degli esteri sono stati “sollevati” dal loro incarico. Insomma neppure a Xi Jinping, malgrado i suoi indubbi successi internazionali, conveniva peggiorare ancora i rapporti con Biden ormai giunti al loro punto più basso da 50 anni in qua.

Ecco quindi l’occasione fornita dal vertice annuale dell’Apec (l’organizzazione economica dei Paesi del Pacifico) a San Francisco. Sia Usa che Cina si sono avvicinati a questo vertice a due tenendo le aspettative molto basse in modo da evitare clamorosi fallimenti. L’importanza dell’incontro era quindi quella di sottolineare il fatto che il dialogo veniva finalmente ripreso e che l’incontro nella città americana costituiva solo l’inizio di un percorso. Xi Jinping ha infatti sottolineato che “le porte del dialogo non possono essere chiuse nuovamente”, una specie di promessa di continuità, mentre Biden ha dichiarato che le quattro ore di incontro erano state costruttive e produttive.

In realtà in questo primo faccia a faccia fra i due leader gli accordi pratici sono stati piuttosto limitati. La cosa di maggiore peso è venuta dalla decisione di istituire una “linea rossa” telefonica fra le due capitali sulle questioni militari in modo da evitare nel limite del possibile reazioni inconsulte in caso di incidenti fra le forze americane e quelle cinesi nel Pacifico. Un’altra questione, apparentemente secondaria, è stata la promessa cinese di bloccare l’esportazione in Usa dei componenti necessari per creare un oppiaceo, il Fentanyl, che nel solo 2022 ha provocato la morte di ben 75 mila americani (più dell’eroina e di altre droghe sintetiche). Infine, sul fronte ambientale, la promessa di triplicare le fonti di energia rinnovabile entro il 2030: una buona indicazione in provenienza dalle due nazioni più inquinanti del mondo. In definitiva, ciò che si può dire è che questa ripresa di dialogo indica un’importante rotta per il futuro: Washington e Pechino si candidano ad essere le potenze guida del mondo. Ciò che nel recente passato veniva indicato come il possibile G2, ben più decisivo dei vari G7, G20 e Brics oggi esistenti. Questo gruppo, limitato a due partecipanti, avrà nelle proprie mani lo sviluppo delle relazioni internazionali e la responsabilità primaria di evitare il loro definitivo collasso e il rischio di un conflitto mondiale. Nello scenario buio di questi tempi, quella di San Francisco è una mezza buona notizia.

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