Tutto sospeso in attesa della missione di Meloni alla Casa Bianca e del suo successivo incontro romano col vicepresidente Vance? Questo sarà indubbiamente il focus della settimana, ma la vita politica non si ferma e nel retropalco partiti ed altri soggetti continuano a lavorare su questioni niente affatto marginali.
Certo l’andamento della scena internazionale avrà un peso determinante, ma tutto è così instabile che è impossibile individuare linee evolutive: Trump lancia una provocazione al giorno e in modo erratico quanto ai suoi obiettivi, Putin persegue strategie barbariche che impediscono qualsiasi serio avvio di negoziati, Netanyahu non recede dalla politica del conflitto “finale” in Medio Oriente. Siamo sull’orlo di un vulcano e possiamo solo sperare in qualche seppur piccolo miracolo.
I partiti italiani di questo sembrano rendersi conto più che altro a livello di grandi prese di posizione (alcune del tutto fuori della realtà). Del resto spazi di azione in parlamento ormai non ce ne sono e il governo opera del tutto isolato nei suoi vertici, mentre fra la gente cresce lo spaesamento.
Intanto il retropalco è alle prese con due questioni, una più seria, l’altra da routine della politica politicante. La prima è la questione della riforma della legge elettorale. Preso atto che per il premierato non si riesce ad arrivare in porto, si torna a puntare su un marchingegno elettorale favorevole ai partiti in campo e disinteressato al tema di recuperare la partecipazione dei cittadini.
Adesso sembra conveniente abbandonare il bipolarismo del sistema maggioritario e si pensa di ritornare al proporzionale, il che consente ai partiti di sfuggire, almeno in parte o in tutto se si abbandoneranno i collegi uninominali, alle spartizioni delle candidature a livello di coalizioni pre elettorali (rissose). Però, siccome si vuole in contemporanea un sistema che produca automaticamente un governo a maggioranza garantita ecco il solito premio di maggioranza da assegnare alla coalizione vincente: così torna la spinta a mettere insieme coalizioni farlocche, cementate solo dalla speranza di spartirsi i posti di governo.
In sovrappiù si punta a stabilire che risulti vincitrice quella coalizione che al primo turno ottenga almeno il 40% dei voti, nella speranza di non avere ballottaggi che costringano le coalizioni farlocche a darsi da fare per vincere al secondo turno, il che comporterebbe lasciare da parte i candidati e gli slogan estremisti e divisivi.
La faccenda è nelle sue tecnicalità molto più complicata, ma la semplifichiamo per far capire come purtroppo abbiamo classi politiche a cui del recupero della partecipazione ampia dei cittadini importa pochissimo: si preferisce procedere sulla via dei confronti elettorali come scontri fra fazioni di tifosi che magari coinvolgono con un po’ di populismo onde occasionali ed emozionali di opinione. Una pessima prospettiva per la democrazia.
La seconda questione che attiene alla politica politicante è quella relativa alla tornata delle regionali in autunno (ammesso che non le si faccia slittare alla primavera successiva per consentire a Zaia un ruolo nelle olimpiadi invernali). Anche qui si vede benissimo come l’universo delle coalizioni crei problemi e non ne risolva. Sul versante della maggioranza tutto ruota intorno alla distribuzione delle candidature a presidente di regione fra i tre partiti che la compongono. La Lega non vuole rinunciare alle presidenze che già detiene, FdI vorrebbe avere alcune regioni chiave visto il peso elettorale molto maggiore che ha, FI non accetta certo il ruolo del partito-cenerentola.
Il dato piuttosto curioso è che nessuno dei tre è in grado di mettere sul tappeto candidati che si impongano a priori per statura e seguito.
Peggiore la situazione nel fu sinistra-centro, ex campo largo. Qui si oscilla fra la competizione che contrappone PD e M5S e le numerose lotte di fazione che sono ormai una caratteristica di quell’ambiente politico. Anche in questo caso non un contesto che attiri il ritorno dei cittadini all’impegno elettorale.
Si dirà che in definitiva si tratta di competizioni amministrative, ma è sbagliato. È nei comuni e nelle regioni che si attivano le filiere politiche ed è a questo livello che andranno affrontati molti problemi posti dai cambiamenti che stiamo vivendo: da quelli ambientali a quelli della tenuta dei legami sociali, giusto per citarne due importanti. Le classi politiche farebbero bene a tenerne conto.