Quando Moussa, lavoratore nigerino, ha ripercorso l’annosa trafila per ottenere la cittadinanza italiana, nella Sala della Circoscrizione si è compreso il suo sofferto vissuto. Ed il valore del “sì” da barrare sulla scheda di un referendum “per chi è già parte di noi”.
Così s’intitolava anche la serata sull’importanza civile di questo voto abrogativo organizzata con inedita convergenza da varie realtà ecclesiali trentine – Azione Cattolica, Agesci, Acli, Focolari, Acpol, Scuola di Preparazione Sociale – che hanno sentito il dovere di “fare di più” per soddisfare un’esigenza di giustizia: poter finalmente dimezzare da dieci a cinque anni di residenza nel nostro Paese il periodo che consente ad uno straniero di chiedere la cittadinanza italiana.
Il nigerino Moussa, introdotto da un giurista e da un’avvocata, ha testimoniato che “godere finalmente della cittadinanza italiana ti fa sentire anche più forte il dovere di contribuire al Paese in cui vivi”. Una riflessione che da sola potrebbe forse bastare a sgretolare la propaganda per il “no”, che ha cercato di depotenziare la chiamata alle urne per accrescere la quota degli astensionisti, annullare il referendum e mantenere lo status quo.
È una questione di umanità e di civiltà, che va ben oltre le appartenenze politiche: se una persona indifferente o disinformata avesse potuto ascoltare le spiegazioni offerte venerdì sera, si sarebbe molto probabilmente convinta che votare “sì” alla quinta scheda, quella gialla, è mettersi dalla parte di tanti stranieri extracomunitari che sono cresciuti e col lavoro hanno messo su famiglia da noi, ma non possono ancora dirsi italiani. E i loro figli minori nati in Italia attualmente devono aspettare fino ai 18 anni per fare richiesta di cittadinanza, non possono fare gite e stage all’estero, farsi scegliere per cariche pubbliche o per squadre azzurre.
O ancora basterebbe rileggere nel numero scorso di Vita Trentina l’attesa logorante del marocchino Badreddine Abou El Khir, 25 anni, nato in Italia, che ha dovuto fare ricorso perché il fatto di essersi trasferito in Spagna con la sua famiglia per motivi di lavoro gli ha impedito, per ora, di vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana. O ancora – in un’altra storia raccolta da Marianna Malpaga in questo numero a pag. 5 – la 25enne argentina Guillermina Rose, arrivata in Italia a 7 anni, ora laureata in Scienze dell’Educazione, ma ancora impossibilitata ad andare a votare. In attesa della cittadinanza, non può accedere a bandi pubblici, per i quali sarebbe preparata.
Proviamo a tener conto delle ragioni del “no”: è vero che un referendum su queste problematiche complesse non può dare soluzioni organiche, ma rappresenta però un’indicazione popolare cogente, impegnativa per il Parlamento. All’altra obiezione (una cittadinanza più “facile” richiamerebbe un’invasione di stranieri, impedendo l’integrazione) si può rispondere con i dati di un decremento demografico che richiede già ora più risorse umane: i nuovi arrivati devono poi essere anche seguiti negli altri passaggi – alloggio, lavoro, diritti… che sostanziano lo status di cittadino.
Barrando il nostro “si” sulla scheda gialla – come si è detto – potremmo favorire anche tanti lavoratori e lavoratrici straniere che si prendono cura dei nostri anziani. E tanti bambini e bambine di scuole e oratori che ora devono aspettare il 18° anno di età, sentendosi ancora stranieri in patria. Anche per loro l’astensionismo sarebbe un altro “no”.