Nulla di nuovo sotto il cupo cielo della guerra Israele-Iran. I due governi si odiano fin dai tempi del rovesciamento dello Scia Reza Pahlavi, filoamericano e pro-occidentale, nel lontano 1979. La rivoluzione iraniana aveva portato al potere il Grande Ayatollah Khomeini, leader di una teocrazia sciita radicale e profondamente antioccidentale. Tre gli obiettivi che il nuovo regime iraniano si poneva: eliminare Israele frutto del colonialismo europeo; inglobare la Mecca e gli altri luoghi sacri musulmani; combattere e cacciare dal Medio Oriente il Grande Satana, gli Usa.
Una predicazione che non è mai cambiata in questi oltre 45 anni di regime e che ha posto l’Iran in rotta di collisione non solo con Israele ma anche con il mondo sunnita rappresentato dagli Stati del Golfo e in particolare dall’Arabia Saudita.
In effetti sulla base di queste premesse politico-ideologiche gli Ayatollah hanno cercato di estendere la propria area di influenza sull’intero Medio Oriente e nel corso dei decenni hanno preso il controllo del governo iracheno caduto nelle mani degli sciiti. Hanno poi trovato nel governo alawita/sciita del dittatore siriano Bashar al Assad un alleato prezioso per rifornire le milizie sciite degli Hezbollah in Libano. In altre parole, si è assistito alla nascita della cosiddetta “scimitarra sciita” che da Teheran si estendeva al Mediterraneo tagliando a metà il mondo sunnita con la Turchia a nord e gli Stati del Golfo a Sud. A completare l’accerchiamento proprio a sud il regime iraniano favoriva poi la rivolta degli Houthi sciiti nello Yemen fino alla conquista della capitale Sana’a.
Con l’assalto feroce di Hamas contro Israele le carte in tavola hanno cominciato a cambiare. La rabbiosa reazione del premier israeliano Netanyahu non si è rivolta infatti solo contro Hamas e la povera popolazione palestinese di Gaza, ma ha allargato il raggio di azione al nord nel Libano distruggendo l’intera catena di comando degli Hezbollah, mentre al sud ha contenuto gli attacchi degli Houthi con l’aiuto degli americani.
Con l’inaspettata caduta del dittatore siriano Assad, Israele ha quindi eliminato tutte le basi militari e di approvvigionamento di armi organizzate in quel paese dagli iraniani. A questo punto è apparso a tutti chiaro che il prossimo obiettivo nella guerra totale del governo israeliano contro i propri nemici sarebbe stato proprio l’Iran.
A giustificare l’operazione di guerra di Tel Aviv entravano nelle ragioni anche i progressi dell’Iran nel campo dell’arricchimento dell’uranio con il rischio temuto in tutto il Medio Oriente di trovarsi all’improvviso con una bomba atomica nelle mani dei radicali iraniani. Lo stesso allarme da parte degli ispettori dell’AIEA (l’agenzia dell’Onu contro la proliferazione nucleare) sul rifiuto iraniano di permettere il controllo degli impianti di arricchimento dell’uranio toglieva qualsiasi freno alla decisione di Netanyahu di passare dalle intenzioni ai fatti. E come previsto è cominciata la guerra vera e propria.
Come è apparso subito dalle dichiarazioni del premier israeliano l’obiettivo non è solo quello di bloccare i progressi iraniani verso la bomba atomica, ma piuttosto di cacciare dal potere gli Ayatollah integralisti. Insomma, quello che viene chiamato “regime change” come avvenuto ad esempio in Afghanistan nel 2001 dopo l’attacco alle torri gemelle ad opera di Al Quaeda, il movimento terrorista ospitato dai talebani allora al potere a Kabul. Esempio non proprio brillante vista la rovinosa ritirata, all’inizio della presidenza di Joe Biden, degli americani dall’Afghanistan ad opera proprio dei talebani.
La speranza di Netanyahu è quindi basata sulla sabbia e non è detto che l’eventuale cacciata della Guida Suprema Khamenei porti ad uno Stato amico, o meno aggressivo di quello attuale. È vero che l’attuale regime è fortemente odiato da una buona parte dell’opinione pubblica iraniana e che già nel passato si sono rischiate rivolte interne. L’ultima nel 2022 dopo l’uccisione da parte della polizia morale della povera Masha Amini. Ma neppure la rivolta dei giovani sulla base dello slogan “Donne, Vita, Libertà” ha portato a scalfire il regime teocratico.
È anche vero che la situazione economica interna è disastrosa e che le enormi spese nel nucleare, al di là delle sanzioni, non si giustificano agli occhi della gente. Anche la palese debolezza del regime di fronte all’offensiva israeliana può favorire la richiesta di un cambiamento politico. Gli israeliani hanno infatti decimato chirurgicamente i vertici delle forze armate e gran parte degli scienziati impegnati nel nucleare e Khamenei è costretto a nascondersi in qualche bunker.
Ci sarebbero quindi tutte le condizioni favorevoli per un “regime change”. Ma non è detto che sarà come desidera Israele o l’Occidente. Vi sono sempre i potentissimi, economicamente e politicamente, pasdaran e le guardie rivoluzionarie pronte a sostituire gli Ayatollah al comando. Se non vi sarà quindi una vera e propria rivolta di popolo ben difficilmente riusciremo a vedere un Iran democratico. Il fallimento di questa strategia in Afghanistan dovrebbe costituire un vero e proprio allarme. Non è con la guerra che si cambiano i regimi interni.