Francesco Vignarca al Sir: “Insensato e pericoloso ragionare secondo l’adagio romano Si vis pacem, para bellum’

“Uno degli effetti più deleteri dell’aumento della spesa militare è che esso sottrae pensiero, risorse e spazio a tutte quelle modalità non armate di gestione dei conflitti e delle differenze internazionali. È uno degli aspetti più problematici di questo rafforzamento della minaccia in chiave militare”. Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete italiana pace e disarmo, esprime forte preoccupazione per le decisioni presi ieri al vertice dell’Aja. I Paesi Nato si sono infatti impegnati a raggiungere, entro il 2035, un livello di spesa militare pari al 3,5% del PIL per quanto riguarda la “spesa militare pura” (quindi carri armati, aerei, soldati), e un ulteriore 1,5% destinato a spese per la sicurezza, accessorie e non meglio definite. “Va sottolineato – chiarisce subito Vignarca – che non siamo di fronte a un obbligo vincolante. Si tratta, infatti, della firma di un documento politico, come tanti altri che l’Italia ha sottoscritto in passato senza che vi fosse necessariamente un obbligo di attuazione. Non essendoci un trattato internazionale firmato, non esiste alcun vincolo giuridico che costringa i Paesi a rispettare tali impegni. Questo è un aspetto fondamentale da chiarire”.

Che impatto però avrà questa ingente spesa militare sulle casse italiane?

L’impatto potenziale è molto significativo, perché non si tratta di una spesa marginale rispetto al nostro PIL. Considerando solo il 3,5% di spesa militare pura, e ipotizzando una crescita aritmetica costante (cioè aumenti annuali uguali) da oggi al 2035, l’Italia arriverebbe a spendere, nei prossimi dieci anni, poco meno di 700 miliardi di euro in spese militari. Si tratta di circa 220 miliardi in più rispetto a quanto spenderebbe mantenendo l’attuale soglia del 2%. Se invece si considera l’intero 5% (quindi includendo anche la componente accessoria legata alla sicurezza), la spesa complessiva nei prossimi dieci anni arriverebbe a circa 970 miliardi di euro, con un incremento di circa 445 miliardi rispetto allo scenario attuale. Questo significherebbe in media 44 miliardi di euro in più ogni anno.
Per avere un termine di paragone: una legge di bilancio in Italia normalmente vale intorno ai 15 miliardi di euro. Quindi l’Italia si impegnerebbe a destinare alla spesa militare e alla sicurezza l’equivalente di quasi tre leggi di bilancio ogni anno, da qui al 2035.

Ma noi tutti questi soldi ce li abbiamo?

L’Italia potrebbe anche avere a disposizione tutti questi soldi, considerando che il bilancio dello Stato ammonta a circa 700 miliardi di euro. Tuttavia, è evidente che se si vuole destinare una quota significativa di quel bilancio a una nuova voce di spesa, è necessario andare a prendere risorse da qualche altra parte. Il nostro Paese non si trova in una fase di crescita economica significativa né di aumento del gettito fiscale, anche a causa del persistente problema dell’evasione. Non siamo solo noi a dirlo: recentemente, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva, ha dichiarato chiaramente che, se l’Italia vorrà aumentare la spesa militare per raggiungere gli obiettivi fissati dalla NATO — ovvero un 3,5% di base e fino al 5% complessivo — dovrà necessariamente tagliare su altre voci di spesa, siano esse sociali o legate agli investimenti economici.
L’Italia non ha margini per accedere a nuovi finanziamenti: è già fortemente indebitata e ogni anno deve pagare decine di miliardi di euro in interessi sul debito.
La gente, purtroppo, se ne renderà conto sulla propria pelle. Forse il governo potrebbe scegliere di non aumentare la spesa militare in modo lineare ma di mantenere incrementi minimi nei primi anni, rinviando alla fine del periodo (entro il 2035) l’aumento più significativo. È evidente che tutto questo somiglia a un gioco delle tre carte, e mette in luce la scarsa serietà e lungimiranza di questa scelta.

C’è una minaccia tale da giustificare questa decisione?

Noi pensiamo che la costruzione della minaccia e la creazione del nemico siano meccanismi funzionali a spaventare, così da far sembrare sensati e razionali aumenti della spesa militare che, in realtà, non lo sono.
Per noi, la vera sicurezza è la sicurezza umana: la sicurezza delle persone nella loro vita quotidiana, nel loro futuro, nella loro possibilità di vivere in pace. È una sicurezza condivisa, fondata sulla cooperazione tra i popoli, non sulla contrapposizione. Ed è una sicurezza che vede gli altri non come nemici mortali da combattere, ma come potenziali partner con cui collaborare. Anche se ci mettessimo nei panni di chi ragiona in termini di difesa e sicurezza militare, non potremmo comunque considerare il riarmo una soluzione. Anzi, alimenta il paradosso della sicurezza: l’aumento degli armamenti da una parte provoca paura e minaccia nell’altra, provocando una reazione simmetrica, e cioè un ulteriore riarmo. Questo meccanismo ha portato, negli ultimi 25 anni, a un raddoppio della spesa militare globale, con un conseguente aumento dei conflitti. E fatto ancora più grave, ha diffuso l’idea che l’unico modo per gestire i conflitti e le differenze tra popoli e stati sia quello militare. In questo modo, non solo si costruisce una minaccia che spesso non esiste, ma si finisce per alimentarla, contribuendo ad aggravare esattamente quel tipo di pericolo che si sostiene di voler prevenire. Ed è proprio questo il nodo più preoccupante.

Le armi hanno gradualmente preso lo spazio che un tempo aveva la diplomazia per risolvere le controversie… di chi è la colpa? Degli attuali leader?

Questo tipo di approccio toglie spazio alla democrazia, alla diplomazia, al diritto internazionale. Invece di cercare soluzioni basate sulla forza, bisognerebbe creare e rafforzare strumenti giuridici e normativi condivisi, per affrontare i conflitti secondo principi di giustizia, non secondo logiche di potere. Questa rincorsa al riarmo è oltre tutto frutto di una cultura che spinge verso lo scontro, il conflitto, la supremazia sull’altro.

Come invertire questa rotta?

C’è l’urgenza di costruire alternative che devono essere innanzitutto concrete e politicamente realizzabili. Ma serve anche un’alternativa ideale, culturale, di pensiero. Bisogna far capire che la sicurezza non può essere solo armata. Come ha detto Papa Leone, nell’incontro del 30 maggio con i movimenti popolari per la pace: “Se vuoi la pace, crea istituzioni di pace”. Non basta evocare la pace: bisogna progettarla, organizzarla, praticarla, con percorsi concreti. Questa è la nostra stella polare, l’ideale che guida le nostre proposte e le nostre campagne. Il vecchio adagio romano “Si vis pacem, para bellum” – “Se vuoi la pace, prepara la guerra” – che ancora oggi viene usato per giustificare un riarmo insensato e pericoloso. Non solo perché, a mio avviso, è tempo di superare le logiche di duemila anni fa, ma anche perché la pace dei Romani – la pax romana – non era una pace giusta, inclusiva, positiva. Era una pace imposta, una pace di dominio.

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