Meta ha chiuso la pagina Facebook “Mia moglie”: nel gruppo pubblico, attivo dal 2019 con oltre 30mila iscritti, erano condivise foto intime e private di mogli e compagne, a loro insaputa, con commenti violenti e sessisti. Il fenomeno, su cui indaga la Polizia postale, non sembra arrestarsi, malgrado la chiusura del gruppo pubblico. I più attivi, ovviamente quasi tutti anonimi, annunciano la migrazione su Telegram e su una chat di WhatsApp, poi, come funghi, sono spuntati nuovi gruppi Facebook sul tema. Sempre mogli/partner da esibire come un trofeo di caccia o la macchina nuova. Ne parliamo con Damiano Rizzi, psicologo clinico, presidente di Soleterre e dell’Associazione culturale Tiziana Vive onlus.
Com’è possibile che uomini facciano questo alle proprie mogli, fidanzate o compagne?
La cornice in cui si muovono questi fatti è il possesso e l’oggettificazione: trasformare la partner in “cosa” esibibile (targa, trofeo, status). L’oggettificazione è il meccanismo psicologico descritto dall’Objectification Theory: quando una persona è ridotta a corpo/immagine, empatia e responsabilità crollano. Le donne non vengono più viste come persone, ma come oggetti da esibire. È un meccanismo che alimenta la violenza domestica e di genere. In culture patriarcali come quella italiana questi esiti sono più probabili.
Ci sono problemi psicologici in uomini che si comportano in questo modo? Non sarebbe naturale per un uomo tutelare la propria partner? Oltre alla gravità di postare le foto rubate alle proprie compagne, anche i commenti alle foto sono volgari e irrispettosi.
C’è un mix di tratti narcisistici (soprattutto entitlement/esploitativeness e narcisismo sessuale). Entitlement significa: “Mi spetta, ne ho diritto, posso farlo”. Un uomo con alto entitlement pensa che il corpo della partner sia suo per definizione: da decidere, usare, mostrare. Non percepisce il bisogno di chiedere consenso perché parte dall’idea che il consenso sia implicito. Exploitativeness significa sfruttamento dell’altro. È la tendenza a usare le persone come mezzi per i propri scopi. Non importa se l’altro soffre: conta solo il proprio piacere o riconoscimento.
Il mix di “entitlement + exploitativeness”, dentro una cultura patriarcale, è esplosivo. Entitlement: “Lei è mia, decido io di lei”. Exploitativeness: “La uso per avere status con altri uomini, come trofeo”. Questa combinazione spiega perché uomini arrivino a postare foto delle proprie mogli: non vedono una violazione, ma un “diritto” e un “vantaggio sociale”.
Il narcisismo sessuale aggiunge la convinzione che la propria soddisfazione sessuale sia prioritaria, anche a scapito del partner, e che la sessualità serva a confermare potere e status.
C’è un atteggiamento diverso tra gli uomini che postano le proprie mogli e per quelli che sono nella pagina o nelle chat ma non hanno compagne ma si dicono voyeur?
Chi pubblica esercita direttamente il controllo sulla partner: la trasforma in un oggetto da esibire. Chi guarda/commenta non fa il gesto iniziale, ma lo rafforza: rende l’abuso “normale”, gli dà un pubblico, quindi valore. Psicologicamente la differenza è di grado, non di natura: entrambi partecipano alla stessa cultura del possesso.
Un atteggiamento del genere è figlio della cultura del “patriarcato”? E quanto accaduto dimostra ancora una volta che i social possono essere molto pericolosi se usati in questo modo?
Il patriarcato non nasce online: parte offline, nei gruppi maschili dove ci si misura con la domanda “te la sei fatta?”, trasformando la donna in un trofeo da esibire. Online però il fenomeno peggiora: l’anonimato permette di nascondere la propria identità, la condivisione è immediata e i contenuti non spariscono ma si moltiplicano.
Studi sul tema mostrano che la violenza digitale amplifica il trauma perché la vittima perde ogni controllo: un’immagine privata può riapparire ovunque e per sempre.
Come si può combattere questa cultura del patriarcato?
Si combatte con educazione affettiva e al consenso (che dimezza i comportamenti violenti tra adolescenti, secondo i dati Unesco), con piattaforme che reagiscono subito e con sanzioni certe, perché la violenza digitale è violenza reale.
Questa pagina dimostra che, malgrado viviamo nel XXI secolo, ancora la donna è considerata un oggetto: perché non si riesce a smantellare questa mentalità? Quanto i media contribuiscono a questo?
L’oggettificazione è ovunque. Non vive solo nei cartelloni pubblicitari o nelle battute da bar: è nei dettagli del linguaggio quotidiano, nelle cronache che minimizzano. I media sono complici quando accettano di dare voce alla cultura del possesso che si intreccia con l’individualismo sfrenato e con un capitalismo senza morale. La donna diventa merce, il corpo diventa click, la violenza diventa spettacolo.
In questo sistema, il valore non è la dignità umana, ma la capacità di generare attenzione, visualizzazioni, profitti. Purché ci siano “ascolti”. Ed è esattamente questo cortocircuito – possesso, individualismo, profitto senza etica – che continua a rendere fragile ogni discorso sul rispetto e sulla parità.
Per una donna che si scopre così tradita da un marito, fidanzato, compagno che ricadute psicologiche possono esserci?
Quello che sappiamo, dalle ricerche sulla diffusione di immagini intime senza consenso, è che oltre il oltre il 70% delle vittime di “revenge porn” (per punire, ricattare, umiliare) sviluppa sintomi clinici di ansia e depressione; e una su tre mostra segni di disturbo post-traumatico da stress (Ptsd). Possiamo in altri casi simili supporre che le vittime vivano una perdita di fiducia dove il tradimento è doppio se a diffondere è il partner. Viene compromesso il senso stesso di sicurezza: chi doveva proteggerti diventa chi ti espone.
Umiliazione e vergogna: sentirsi commentate, giudicate, ridotte a corpo produce vergogna profonda. Con il tema del senso di colpa. In Italia, secondo Telefono Rosa, il 58% delle donne vittime di violenza online dichiara di provare senso di colpa, nonostante la responsabilità sia dell’autore dell’abuso. Uno studio dell’Apa (2020) mostra che le vittime di “image-based abuse” hanno livelli di stress post-traumatico paragonabili a quelli di chi ha subito violenza sessuale fisica.
Fatti come questi hanno la stessa matrice dei troppi femminicidi e violenze sulle donne che ci sono nel nostro Paese?
Il femminicidio non nasce dal nulla: ha radici precise nel possesso e nel controllo. In Italia i dati dicono che nel 75% dei femminicidi la donna aveva già subito forme di controllo, umiliazione o violenza psicologica prima dell’omicidio (Istat, 2023). Significa che il femminicidio è quasi sempre l’ultimo atto di una catena che unisce possesso, narcisismo e sessismo. Il passaggio all’atto omicida non è un “raptus improvviso”: è un gesto che esplode in quel momento, ma che è stato preparato a lungo, cresciuto in un terreno fertile fatto di patriarcato, di normalizzazione della violenza e di una cultura che ancora considera la donna come proprietà dell’uomo.
In altre parole: il femminicidio è la forma estrema di un potere che si sente legittimato a decidere sulla vita e sulla morte di chi non è più visto come persona, ma come oggetto di possesso.