Dalla casetta sull’albero uno sguardo sulla vita

Lo spunto

“… chi come me ha fatto le vendemmie come quelle dipinte da Venceslao di Boemia nel 1460 alla Torre dell’Aquila del Castello del Buonconsiglio, non può respingere il buon consiglio che generosamente viene dal cuore e appendere il catino al chiodo, limitandosi a scrivere memorie di una vita di campagna che mio padre mi ha sempre negato (per indirizzarmi agli studi, al diploma, alla laurea…) che poi tardivamente ho fatto e che ha reso la vita da pensionato la culla dei miei sogni. Ma ecco, andare in pensione dai sogni è forse più difficile ed è per ciò che Anna con una stampante mi propone di dar inchiostro alla mia vita, fissarne ricordi, memorie e sogni”.
Pier Dal Rì
(dalla prefazione a “Mai con i piedi per terra”)

L’ iniziale ringraziamento di Pier Dal Rì, dirigente provinciale ora in pensione, alla moglie Anna spiega come e perché l’architetto di Mezzocorona, commentatore di fatti su molti “media” e vignaiolo della Rotaliana, abbia deciso di allontanare le mani da tralci e grappoli per “dare inchiostro” alla sua vita, raccontandola in un libro “da uomo libero”, come egli stesso si definisce, capace di mantenere intatti anche nell’età matura i sogni della giovinezza.

La prefazione del libro rappresenta la chiave armonica per comprendere toni e significati di “Mai con i piedi per terra” che l’autore ha scritto sulla sua vita, quasi a rendere se stesso ancora più esplicito di quanto traspaia dai capitoli autobiografici. La copertina, con la bella foto scattata da Alberto Folgheraiter, ritrae l’autore ai piedi di un albero sul quale è costruita una casetta di legno, prova tangibile che “dai sogni non si va mai in pensione”. E quella casetta esprime l’aspirazione dell’uomo che non voleva (e non vuole) finire con i piedi per terra ma “salire su un albero, arrampicare fra i rami, passare da una pianta all’altra e decidere di non scendere più”, proprio come il “Barone rampante” del celebre romanzo di Italo Calvino. Pier Dal Rì quella casetta non l’ha costruita da ragazzo per sé, ma in questi ultimi anni per i due nipotini, realizzando però un sogno che era stato suo, un riparo dal quale poi muoversi sui rami. Se abitare sull’albero è anche il sogno di tanti bambini, esso si traduce poi in “visione” (dall’alto, verso la terra dove non si vogliono mettere i piedi) quando i piccoli diventano “grandi” adulti. È questo passaggio – da sogno a visione – che Dal Rì racconta, con tutte le occasioni, ma anche i pericoli che comporta, per mostrare che anche la casetta, come il libro, deriva da un sogno che si è realizzato, e non dalla volontà di esibizione, come qualcuno, magari, potrebbe pensare.

Con questa foto di copertina Dal Rì vuole invece confermare che le “visioni” adulte (anche politiche, economiche e sociali, quelle che impediscono di mettere i piedi per terra e sporcarseli) derivano dai sogni e si concretizzano se si tien fede all’invito evangelico di “farsi bambini” per raggiungere consapevolezze precluse ai dotti e ai sapienti (Dal Rì è dichiaratamente laico, ma le sue ultime pagine sono dedicate a uno struggente ricordo di papa Francesco). Anche vivere sui rami non è esente da rischi, richiede perizia. Con le mani, ad esempio. Non solo per non cadere nel volteggiare da una fronda all’altra, ma per non spezzare il ramo che ci sostiene, finendo poi senza volerlo per terra, o facendo cadere spezzoni rinsecchiti in capo a chi sta sotto, ammirando forse l’uomo che si muove fra le foglie. Oppure il pericolo è di vedere dall’alto un orto chiuso, un giardino che si ritiene precluso, mentre forse basterebbe suonare al cancello per farselo aprire. Ecco, Dal Rì vuole escludere ogni possibile equivoco sul suo volteggiare fra i rami, e garantire invece a chi lo leggerà che le sue mani sanno costruire una casetta sull’albero, come sanno accarezzare i sentimenti racchiusi in essa (anche quelli che accompagnano una tecnologica stampante)! Perché lungo la sua vita in campagna, nelle aule di studio, negli uffici provinciali, Dal Rì ha saputo mantenere mani salde e ben robuste. Capaci di usare la forbice e potare le vigne, capaci con la matita di porre su carta i suoi progetti e le sue idee (“i soldi si trovavano perché non mancavano le idee” racconta dei suoi anni in Provincia con Kessler, Mengoni e poi Micheli), così come sono abili con l’inchiostro per i suoi scritti (“Erpi” era lo pseudonimo della sua rubrica) ma anche con le “strope”, i flessibili vimini immersi nelle fontane per legare i tralci delle viti, che possono però facilmente trasformarsi in “vischie” per fustigare, a volte, persone e vertici di potere. Così nel libro l’autore sa usare le parole come “strope” per legare i tralci potati e comporli in pergole intessute di sentimenti. Non di risentimenti. Perché dall’alto si vedono, certo, gli errori e le distorsioni che sulla terra vengono compiuti, ma dai tralci si raccolgono i frutti che una vita ha realizzato, non le foglie diradate, cadute per terra. Dopo l’infanzia nel tessuto comunitario di Mezzocorona, ecco la giovinezza in quegli anni Sessanta che fecero della sua generazione un “ponte” fra due mondi: quello secolare e contadino e quello della rivendicazione dei diritti personali e della partecipazione in prima persona ai problemi globali. Dal Rì ripercorre poi i suoi anni in Provincia, chiamato da Kessler, che sapeva riconoscere i giovani di talento da far crescere per costruire l’ossatura burocratica e progettuale della Provincia nella “seconda autonomia”, quella del Pacchetto dopo gli anni del terrorismo altoatesino. Il libro consente un punto di vista dall’interno di quegli anni, con luci ed ombre, senza risentimenti, ma piuttosto riconoscimenti della spinta progettuale di tutto l’impianto autonomistico, con dirigenti ed impiegati chiamati a contribuire alla progettualità, non solo a realizzarla. I tralci portanti della vigna di Dal Rì annoverano lo sbarrieramento architettonico, le piste ciclabili, il Progettone, la cittadella del vino al posto dell’inquinante Samatec, sostegno della produzione locale e apertura ai mercati internazionali.

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