Elezioni regionali, rito stanco di una politica senza identità

Le diatribe sulle elezioni regionali sono un rito stanco e di scarso interesse: testimoniano una politica sempre più senza identità, ridotta a lotte di fazione dentro i partiti, dentro le coalizioni e dovunque ci sia qualche poltroncina da spartire. Eccezioni ce ne sono, ma paradossalmente non fanno neppure notizia. Il tormentone sulle candidature di vertice nelle sette regioni che vanno al voto sembra arrivato quasi al capolinea: quasi, perché manca il Veneto ostaggio della lotta fra la Lega e FdI. In Puglia sembra sbrogliata anche la matassa della ostinata candidatura di Michele Emiliano. Salvo ripensamenti dell’ultimo minuto, avrebbe accettato il famoso passo indietro o di lato: in cambio di cosa non è dato saperlo. Così De Caro può candidarsi perché il vero scoglio era la presenza in lista col PD del magistrato-governatore in scadenza. Quella di Vendola nelle liste di AVS è folclore, perché il personaggio può essere ingombrante a livello di scena pubblica, ma non ha le capacità manovriere e clientelari di Emiliano. Si compone così il famoso campo largo a cui punta “testardamente” la Schlein? È tutto da vedere, perché gli accordi sono accrocchi fra vertici politici, non incontri su basi realmente programmatiche, a meno che qualcuno non consideri “programmi” le bandierine che ogni partito e/o gruppo cerca di far inserire in qualche comizio o in qualche stiracchiato manifesto/accordo. Non sono progetti politici i confusi propositi di reintrodurre qualche forma di reddito di cittadinanza, sulla base di risorse piuttosto incerte. Al di là del fatto che sia possibile farlo o meno, non è un bel messaggio alla UE utilizzare fondi comunitari per politiche sostanzialmente di acquisto di voti. Risolto il nodo delle candidature come presidenti di regione (vedremo se in Veneto troveranno la mitica quadra), resteranno da comporre le liste dei candidati e anche qui si profila il solito teatrino fra spartizioni correntizie e ricerca di qualche personaggio che abbia fatto audience. Se ne vedono di ogni tipo: dal familismo senza pudore (il presidente De Luca può insultare fin che vuole, ma ha distrutto l’immagine pubblica del figlio), alle figure da palcoscenico, televisivo o meno, come Vannacci in Toscana o la filosofa De Cesare in Calabria. Non mancano quelli che hanno percorso tutte le stagioni tipo l’economista Minenna, a suo tempo consigliere della sindaca Raggi, oggi fiero avversario del candidato pentastellato Tridico essendo consigliere dell’uscente Occhiuto. Se si volesse distrarre lo sguardo da questo assai poco confortante spettacolo, a destra come a sinistra, ci si potrebbe chiedere come mai non c’è alcun inizio di un serio dibattito sulla prossima finanziaria che dovrà misurarsi, inevitabilmente, con gli squilibri della situazione internazionale, che da un lato ci aiutano (l’Italia sembra andare meglio della Germania e molto meglio della Francia, il che aiuta la sostenibilità del nostro debito), ma dall’altro ci impongono sia spese per il versante militare, sia rigore per non perdere i risultati di immagine e credibilità acquisiti. Vi pare che esista un dibattito adeguato su questi temi fra i partiti e dentro gli stessi? Ovviamente al netto del fatto incontestabile che nei partiti luoghi pubblici per discutere di queste cose non ne esistono quasi più: niente organismi statutari che si riuniscono, nelle “feste di partito” di vario genere e natura si fa solo a gara a creare occasioni per rinforzare la fede segregata dei militanti evitando confronti. Non si riescono a sciogliere neppure nodi che dovrebbero essere affrontati almeno per pudore rispetto ai doveri di Stato. Il caso emblematico è la RAI, che continua ad essere priva di un presidente e che va avanti sulla base di un sostanziale autogoverno per feudi, ciascuno appaltato neppure ad un partito, ma ad una lobby politica. Non stiamo parlando di una questione di rilevante complessità istituzionale o di uno snodo decisivo per il futuro del paese: stiamo parlando, spiace dirlo, di una lotta per bande. E intanto, come è inevitabile, Mediaset cresce, la TV di Cairo si consolida, mentre il cosiddetto servizio pubblico costa soldi e produce scarsa cultura da ogni punto di vista. Si scommette che l’esito della tornata autunnale di elezioni regionali darà indicazioni su dove si indirizzerà la nostra politica. Temiamo che, visto il contesto, confermino un ulteriore scollamento fra la cittadinanza e le corporazioni politiche: basterà leggere i trend dell’astensionismo per rendersene conto.

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