«Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito»

14 settembre: Esaltazione della Santa Croce – C

Letture: Nm 21,4b-9; Sal 77; Fil 2,6-11; Gv 3,13-17

«Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16).

Sembra strano celebrare oggi l’esaltazione della croce dato che la croce è spesso sinonimo di sofferenza, ingiustizia e annientamento. Eppure, il vangelo di oggi ci assicura che la croce di Cristo è segno di amore totale e strumento di salvezza (Gv 3,14). Com’è possibile questo? E cosa c’entra con il nostro quotidiano?

Per cercare una risposta, vorrei entrare in dialogo con la parola attraverso l’esperienza di un uomo, Paolo, che non ha incontrato Gesù, non ha camminato con lui verso Gerusalemme e non l’ha visto morire sul Calvario. Tuttavia, è stato affascinato dal mistero della croce e in essa ha scoperto la propria identità.

Presso la croce Paolo è divenuto discepolo, un uomo conquistato dall’amore di Gesù (Gal 2,10). È un amore che lo affascina e commuove; un amore tanto vasto e profondo da «sorpassare ogni conoscenza» (Ef 3,17-19). La croce diviene per lui il punto di partenza per penetrare nel cuore del Vangelo, nel mistero stesso dell’amore del Padre. La croce rivela il Padre come il Dio «per noi» poiché «Egli non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi» (Rom 8,31-32). La croce, infine, radica la fede di Paolo: nulla, neppure la morte, «potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore» (Rom 8,39).

Presso la croce Paolo è divenuto missionario. L’amore lo «spinge» (2Cor 5,14) a percorrere i sentieri del mondo, perché ogni creatura possa conoscere la salvezza operata nella morte e risurrezione di Gesù. La croce lo conduce ad abbracciare la debolezza e la povertà del crocefisso (Gal 6,17). Il paradosso della croce determina il suo metodo missionario: annuncia Cristo con la stoltezza di una predicazione che nulla concede alle pretese del vanto umano – sia esso di marca giudaica o greca (1Cor 1,22-23) – nella libertà da ogni desiderio di controllo e di successo (2Cor 12,9).

Presso la croce Paolo è divenuto padre. Porta come «assillo quotidiano la preoccupazione per tutte le chiese» (2Cor 11,28), mentre soffre «i dolori del parto finché non sia formato Cristo» in coloro che chiama suoi figli (Gal 4,19). Con la parola, l’esempio, la preghiera si fa «tutto a tutti» (2Cor 4,5), affinché ognuno faccia propri «i sentimenti che furono in Cristo Gesù»: svuotamento, obbedienza, abbandono (Fil 2,5-6).

Qualcuno potrebbe obiettare che l’esperienza di Paolo è unica. Credo invece che appartenga a tutta la comunità credente, ad ogni discepolo missionario. In Ghana, dove vivo, rimango affascinata ogni Venerdì Santo dall’interminabile processione di persone, che attendono di adorare croce. In una situazione religiosa e culturale in cui dolore e morte sono considerati maledizione e segno della lontananza di Dio, proclamano la loro fede nella vicinanza di un Dio crocifisso, credendo che nella morte di Gesù anche il loro dolore ritrova senso perché è abitato da Dio.

In fila come gli altri, anche i miei occhi si sono aperti e ho compreso che la risurrezione non è il secondo atto del mistero salvifico, ma la croce è risurrezione nella misura in cui diviene luogo della rivelazione della vicinanza di Dio, punto d’arrivo di quel processo di incarnazione totale di un Dio fatto davvero carne. La croce parla di rinuncia da ogni forma di potere, parla di svuotamento, parla di condivisione radicale della nostra realtà umana. Parla di non violenza, di perdono; di un amore che non conoscere limiti. E parla di speranza, perché l’odio è stato finalmente distrutto dall’amore.

Chiediamoci: quale buona notizia mi giunge dalla croce?

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