“Pace giusta”, la storia insegna come si fermano le guerre

L’accertamento delle condizioni che possano portare a una “guerra giusta” (anche in difesa ad un’aggressione ingiusta, condotta con regole definite a tutela della protezione civile) sono diventate col tempo sempre più difficili da accertare data la letalità crescente degli strumenti di morte messi in campo da tecnologie sempre più sofisticate, persuase il magistero cattolico, dalla Pacem in terris in poi (1963) che nessuna guerra poteva più essere definita “giusta”, men che meno quelle combattute in presenza dei dispositivi nucleari. Se si è finalmente compreso che nessuna guerra può essere definita “giusta”, come si può ancora ritenere che possa esistere una pace “giusta” alla fine di una guerra? (…) Dunque, una “pace giusta” è un ossimoro. Non si potrà mai dare giustizia a tutti coloro che, da una parte e dall’altra hanno perso la vita, ai territori devastati, alle migrazioni forzate, alle gravi perdite economiche, non si potranno ricostituire equilibri sociali faticosamente raggiunti in precedenza e i nuovi equilibri si riveleranno spesso peggiori (…) Dunque quando una guerra è in corso l’obiettivo di raggiungere la pace con lo scopo primario di far cessare le uccisioni ha un valore maggiore rispetto alle considerazioni di giustizia. 

Vera Negri Zamagni(Città Nuova, agosto 2025) 

Da quando questo ammonimento è apparso su “Città Nuova”, il mensile del Movimento dei Focolari, si sono succeduti nel mondo ripetuti inviti alla pace, seguiti anche da minacce di sanzioni economiche, ma il risultato è apparso andare in direzione opposta.  

Le devastazioni si sono inasprite, sia in Ucraina che a Gaza, e il pericolo che i conflitti sfuggano di mano si è fatto sempre più vicino, tanto da rendere concreto il timore di conflitti ancora più estesi che si tradurrebbero in un olocausto per tutta l’umanità, anche per i popoli lontani dai teatri di scontro. Ma non deve forse stupire che gli sforzi di pace siano congelati, perché sembrano male impostati, basati su due equivoci contrabbandati per realismo e giustizia, mentre appaiono piuttosto frutto di auspici o velleitarismi che non riconoscono le dure lezioni che la storia ha impartito, anche nel secolo scorso, al mondo e disattendono la psicologia dei popoli.  

L’ossimoro (possiamo qui tradurlo con “equivoco”?) della “pace giusta” che richiama lucidamente Vera Zamagni, docente di Storia economica a Bologna e “visiting professor” della prestigiosa Johns Hopkins University, va infatti contro la constatazione che nessuna pace per qualcuna delle parti è stata “giusta”, né probabilmente potrà mai esserlo.  

Anche in casa nostra fra Trento e Bolzano, qualcuno ancora potrebbe ritenere (e di fatto non pochi ritengono) che la pace della sanguinosissima guerra mondiale 1914- 18, un secolo fa, sia stata ingiusta per i confini fissati sulle Alpi. Ed altrettanto si potrebbe dire per i confini adriatici e dalmati dopo la Seconda guerra mondiale. Si dovrebbe allora riprendere a combattersi? Certo che no. Ma proprio queste due paci, che pur con i loro limiti, hanno posto fine alle “inutili stragi” e faticosamente, ma positivamente, hanno fondato le nuove convivenze su altri equilibri che non le frontiere (autonomie, relazioni fra ex combattenti capaci di superare gli odi atavici fra le nazionalità…) indicano che occorre trovare un’altra strada da percorrere.  

Prima di tutto, per raggiungere la pace, occorre far tacere le armi. Occorre raggiungere un “cessate il fuoco” comunque, e non lo si ottiene seguendo il vecchio detto latino “Si vis pacem para bellum” (Se vuoi la pace prepara la guerra) ma togliendo ai combattenti l’occasione (che non raramente diventa pretesto) di usarle, le armi.  

È ingiusto, ma non desta molto stupore che una parte bombardi le città, o ne spiani le “torri” se l’altra parte si dota di armi che possono raggiungere i suoi centri vitali. D’altra parte, risulta spesso controproducente pensare che una parte si fermi perché minacciata da sanzioni economiche, le quali ottengono piuttosto il risultato di inasprire le reazioni di un popolo, di innalzare il livello di odio che porta combattere.  

Questo desta più timore: percepire, anche nelle piccole realtà quotidiane, la spirale di odio che, come la tromba d’aria di un travolgente ciclone, sale nel mondo. Dietro le guerre esistono certo gli interessi geopolitici, il voler controllare risorse economiche strategiche. Ma prevalente nei conflitti risulta la reazione all’insicurezza che “accerchiamenti”, terrorismi o ricatti economici possono provocare. Se poi le guerre si prolungano, le posizioni si inaspriscono ulteriormente: “Se ho perso tutto, la famiglia, gli affetti, la casa, che m’importa vivere? O avere qualche soldo in più? Uso tutte le armi che possiedo, e accada quel che deve accadere. Di me non m’importa più nulla”. Un meccanismo tragico che prolunga le guerre. Non è facile fermarlo, ma è necessario, ed anche possibile, perché poi la storia dimostra che la contesa premia non chi vince la guerra, ma chi è disposto anche a pesanti concessioni per raggiungere la pace.  

Quanto alle “sanzioni” economiche ottengono quasi sempre l’effetto di irrigidire chi le subisce, addirittura provocando nuovi conflitti. I nostri genitori raccontavano come le sanzioni all’Italia, dopo l’aggressione all’Etiopia, rafforzarono invece di indebolire il regime fascista. Bevvero per solidarietà patriottica il karkadè nazionale, invece del tè inglese anche gli antifascisti, e non furono certo le sanzioni a fermare la guerra che stava maturando. Quanto alle rappresaglie naziste dopo l’8 settembre, ebbero per effetto di spingere sempre più giovani verso il movimento partigiano.  

Per la pace nessuno ha la ricetta in tasca e non esistono scorciatoie, ma è certo necessario fermarsi. Per ribadire anche che nella situazione mondiale tocca all’Europa diventare artefice di pace, non riarmarsi o sostituire il mercato americano delle armi nel mondo. L’Europa deve mantenere credibilità e dialogo nel conflitto che, di fatto, vede opposte le due massime potenze mondiali, né deve farsi trascinare da chi cerca armi ad ogni costo. Il rischio non è solo un prolungamento dei conflitti, ma la stessa disintegrazione interna dell’Europa, già visibile in varie realtà nazionali.  

Perché l’Europa prima ancora che per lo sviluppo dei suoi popoli storici è nata per portare e mantenere pace, una pace faticosamente e dolorosamente conquistata, per non schierarsi in nuove guerre. 

vitaTrentina

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