“Pensione Francesca” a Capriana, vandalismi anche nei piccoli paesi

C’era una pensioncina a Capriana, la “Pensione Francesca”, dove da ragazzi con pochi spiccioli investiti in caramelle potevamo goderci qualche spettacolo televisivo. Con la morte della titolare, l’edificio è stato venduto ad un’immobiliare. Ora fa male vedere com’è stato vandalizzato da un gruppetto di ragazzi che ne hanno sfondato le porte, demolito le suppellettili, infranto i vetri delle finestre, scassato i lampadari… lasciando scritte come “Rompi tutto. Spacca tutto etc”. E hanno ripetuto i gesti e le scritte dopo che i proprietari avevano ripristinato gli accessi. Ora mi chiedo: perché tanto accanimento, tanta rabbia? Cosa porta questi ragazzi ad un comportamento così, a queste manifestazioni violente? Forse la noia? Mi piacerebbe trovare una risposta… 

Corrado Zanol (Capriana) 

Risulta difficile dare una risposta a fronte dei comportamenti distruttivi e asociali diffusi non solo fra i giovani, non solo contro le cose (la pensioncina sfasciata, le vetrine infrante nelle manifestazioni…), ma anche a livello personale (“bullismo”), politico (rissosità provocatorie) e comunicativo, come tanti confronti esasperati nei salotti tv che hanno portato recentemente un brillante giornalista della stampa locale a parodiarne la tendenza postando sul suo blog la vignetta di un televisore con la didascalia sottostante: “Sfascia la tv”…

Proveremo ugualmente a cercare alcune “ipotesi di lavoro”, almeno per una possibile comprensione di questi atteggiamenti che sono al tempo stesso conseguenza di un diffuso disagio sociale e causa di un malessere al quale essi stessi contribuiscono. Per non dire che spesso portano ad effetti contrari, scoraggiando la ricerca di soluzioni, incentivando pregiudizi e rancori, portando a reazioni fuori misura e repressive.

Ma perché “sfasciare tutto”? Mi sembra che si debbano escludere le due possibili risposte estreme: perché i ragazzi sono diventati maleducati e non rispettano più né le cose né le persone o perché è tutta colpa della società ingiusta che va quindi sfasciata anche nei suoi segni materiali.

Intendiamoci: è vero che la maleducazione nei rapporti interpersonali è cresciuta, ben al di là del mondo giovanile, come è vero che le ingiustizie di lavoro, con disparità (baratri) di reddito spesso inaccettabili sono aumentate a dismisura, provocando autentici vortici esistenziali e sociali, conflitti di classe verticali fra generazioni, ma è anche vero che tutto ciò non basta a spiegare l’accanimento distruttivo dei vandalismi. Che non vanno, peraltro, né mitizzati, né sottovalutati, perché se da un lato non è con questi sistemi che si fanno le rivoluzioni, dall’altro occorre tener presente che i comportamenti giovanili costituiscono sempre il termometro che segna la febbre di una situazione storica o l’emergere di esigenze nuove.

Forse è proprio da qui che occorre partire per inquadrare i vandalismi della piccola Capriana. Il momento attuale è segnato da accadimenti davvero “nuovi” per le ultime generazioni: nel mondo riesplodono in modo drammatico guerre suscettibili non solo di provocare stragi, macerie e vittime innocenti, ma di distruggere la vita stessa sul pianeta, mentre il mito di uno sviluppo continuo, rappresentato da un globalismo contrabbandato per “magnifiche sorti e progressive”, mostra il suo fallimento esistenziale, smentendo le previsioni di chi lo indicava, assieme al mercato, come la soluzione per tutti i problemi di un mondo sempre più interconnesso.

Ma la vera “novità” sta forse nell’esaurirsi della spinta motivazionale che sorreggeva quella autentica rivoluzione dei comportamenti che è stato il Sessantotto, con la rivendicazione del primato dell’individuo sul contesto sociale; una rivoluzione tradita dal privilegiare in eccesso il “mio” e il “tuo” rispetto al “nostro”, i diritti rispetto ai doveri, quasi un dogma che ha spezzato antichi equilibri e ha spinto, di fatto, la politica, a promuovere interventi a favore di gruppi di interesse, di risorse economiche forti, di vantaggi immediati rispetto a investimenti sociali a lungo termine, rinunciando a dare “buoni esempi” e smantellando invece, per ragioni di bilancio o pressioni di parte, presenze e presidii di comunità.

Questo ha portato, nel vivere quotidiano un senso di isolamento negli individui e una perdita di relazioni civili nei contesti di vita, inevitabilmente destinati a sfociare in egoismi, in ambizioni di possesso, in estraneità nei confronti di ciò che appartiene ad altri e di cui non si può godere. Un sistema di sensazioni che porta a percepire il possesso come un proprio diritto e quindi a vedere in ciò che non si possiede un torto subito, un ostacolo all’affermazione personale alla quale si ha “diritto”.

Questi atteggiamenti si sono manifestati innanzitutto nelle periferie urbane, spesso ridotte a dormitori, per estendersi ai paesi ormai impoveriti del senso di comunità che li caratterizzava. Con conseguenze nella piccola imprenditoria: un conto è mettersi al servizio di qualcuno, un conto è avere un piccolo esercizio, dove agire ed imparare in proprio. Anche sul fronte dell’ospitalità si è registrata una simile tendenza: pensioncine e locande che erano il tessuto connettivo di accoglienza hanno ceduto il passo ai grandi “resort” o ai costosi locali “stellati”. Il segno di questi vandalismi appare chiaro, soprattutto per i paesi di montagna. Occorrono iniziative culturali e politiche per ricostruire comunità, senso di appartenenza, rilancio di beni collettivi indivisibili e invendibili da curare e difendere, non da sfruttare. In parte a questa visione cerca di supplire la cooperazione, ma non basta: occorre impegnarsi anche a formare giovani capaci di gestire la complessità dei beni comuni.

L’economia civile di Stefano Zamagni, Leonardo Becchetti e Luigino Bruni può essere una strada, ma va accompagnata dalla consapevolezza “politica” dell’urgenza di una sorta di nuova riforma “teresiana” nella nostra società, consistente nel riportare maestri e pastori come presenze stabili, riconosciute e rispettate nei paesi, rilanciando le attività manuali costruttive che hanno sempre caratterizzato le culture alpine (la baita la si sapeva costruire in paese, senza attendere lo Stato). Sono investimenti umani che richiedono tempo e dedizione, ma appaiono necessari. Si tratta, un passo alla volta, di ricostruire occasioni e motivazioni capaci di rendere attraenti e solidali le comunità di montagna. 

vitaTrentina

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