Sfida sinodale, tra realtà e immagine

“L’immagine di una sedia non è mai una sedia”. Il dimenticato gesuita con trascorsi trentini Nazareno Taddei, grande critico cinematografico e amico di Federico Fellini, ammoniva i suoi allievi con un mantra di straordinaria attualità. Per ricordare loro che l’immagine – come in fondo ogni cronaca, anche la più banale narrazione di un evento – è sempre una rappresentazione parziale della realtà. Edulcorata, falsificata, ideologica, potentemente evocativa. Ma pur sempre di parte. E aggiungeva, il Nazareno cinefilo: “Provare per credere: sedetevi su di una vera sedia o sulla sua fotografia. E poi ditemi”.

Nell’era delle immagini prodotte da algoritmi di presunta intelligenza, prive del benché minimo aggancio con il reale, il sillogismo di Taddei sembra assumere connotati quasi inquietanti: dove sta oggi il confine tra realtà e finzione? Come individuarlo? Come difendersi?  Al contempo, la provocazione taddeiana innesca un’altra riflessione. Al di là dei “filtri” altrui, quale immagine, noi per primi, offriamo di noi stessi, della nostra famiglia, del nostro contesto di appartenenza? Cosa lascia trasparire, ad esempio, la Chiesa del proprio essere comunità credente chiamata ad annunciare, con il sorriso, il regno dell’amore testimoniato dal Nazareno (quello vero), Parola che esalta l’umano e lo affranca da ogni orpello schiavizzante, lo libera dalla logica del denaro e dei rapporti strumentali e violenti, ascolta e accoglie, perdona e non condanna, porta pace?

Pensieri che frullano nella testa dopo aver preso parte all’Assemblea finale del Cammino sinodale della Chiesa italiana e averne letto i resoconti giornalistici, spesso semplificati e parziali. Nel documento di sintesi di quattro intensi e (forse un po’ trascinati) anni di lavoro sinodale, esito della clamorosa bocciatura incassata nell’aprile scorso ma nei mesi successivi ridiscusso e riscritto, c’è molto di più dell’apertura sacrosanta al mondo Lgbtq+ e al sostegno alle giornate per i diritti civili.

C’è soprattutto il frutto di un cammino d’insieme ispirato con tenacia da papa Francesco e che ha visto per la prima volta a un unico tavolo vescovi e laici (con significativa presenza femminile), presbiteri, religiose e religiosi, diaconi e – forse un giorno – diaconesse. Le resistenze non sono mancate, certo, ma fanno parte del processo stesso: la corresponsabilità – in Italia come nella Chiesa universale riunita a Roma per il Giubileo delle equipe sinodali – è solo agli inizi e la fatica è il prezzo naturale di ogni salita che permette di ampliare lo sguardo.

“Cosa cambia nel concreto dopo il cammino sinodale?”, si chiedono ora in molti. Forse non saranno le novità e le decisioni affidate ai vescovi e alle diocesi a fare la differenza, ma il metodo. In fondo, conterà l’immagine che la comunità credente saprà dare di sé.

Non inganni, in tal senso, il colpo d’occhio degli oltre ottocento delegati diocesani – per lo più dai capelli grigi – riuniti all’Ergife, hotel romano simbolo di tante adunate di partito. I trionfalismi appartengono a un passato che sopravvive solo nei nostalgici.

A contare sarà la presenza nel quotidiano: nei paesi al limitare delle nostre valli, nei borghi arroccati della Basilicata, come nelle metropoli globalizzate. Comunità umili e gioiose, anche nei loro piccoli numeri, dove il soggetto prevalente sia il “noi”: ognuno – come ha ricordato papa Leone ai sinodali – con il proprio carisma, ma senza particolari stellette da esibire e gerarchie di facciata. Membri di un un’unica comunità chiamata a ricercare insieme la verità. Senza alcun potere da esercitare, pronta piuttosto a battersi il petto come il pubblicano anziché elevare preghiere farisaiche. Silenziosa, ma capace di alzare la voce a difesa dei più deboli. Per portare un po’ di consolazione là dove il dolore sembra negarla. E aprire lo sguardo sulla speranza, porta aperta sull’eternità. A “immagine” e somiglianza del Dio di Gesù di Nazaret.

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