Belém, 12 novembre — “La nostra terra non è in vendita.” Lo slogan delle proteste di martedì ha segnato l’inizio di due giornate incandescenti alla COP30. Quel giorno, una manifestazione di organizzazioni civili e leader indigeni aveva tentato di entrare nella zona blu della conferenza — l’area riservata ai negoziati formali — per denunciare l’esclusione delle comunità amazzoniche dalle discussioni ufficiali. La protesta era stata respinta con forza dalla polizia ONU, ma il messaggio era chiaro: non si può decidere del futuro del pianeta senza ascoltare chi da secoli difende la foresta.
Mercoledì, la tensione è tornata a salire. Questa volta, però, la protesta ha assunto un carattere istituzionale. Un gruppo di rappresentanti dei popoli indigeni, guidato dalla ministra brasiliana dei Popoli indigeni Sonia Guajajara, ha marciato dentro la zona blu, chiedendo la fine delle trivellazioni in Amazzonia e il riconoscimento del ruolo delle popolazioni native nella lotta alla crisi climatica. La presenza della ministra ha dato alla mobilitazione un significato politico preciso: il Brasile vuole portare all’interno della COP le istanze di chi vive e protegge la foresta, non solo come simbolo, ma come voce negoziale.
E mentre la diplomazia si misurava con la protesta, la Cupola dei Popoli apriva ufficialmente i suoi lavori. La giornata è stata inaugurata dalla Barqueata, una spettacolare parata di oltre duecento imbarcazioni nella Baía do Guajará, con più di cinquemila partecipanti provenienti da sessanta paesi. Tra loro, figure storiche come il cacique Raoni, alla guida della “Carovana della Risposta”. Fiumi e foreste diventano così luogo e metafora della resistenza: la protesta si fa visibile, collettiva, fluida. Le popolazioni amazzoniche, i quilombolas, le comunità fluviali e periferiche rivendicano la loro centralità: “La risposta siamo noi”, affermano, opponendosi alle false soluzioni climatiche e rivendicando pratiche agroecologiche e saperi ancestrali come chiavi di un futuro sostenibile.
Mentre la società civile porta la sua voce nei fiumi di Belém, la presidenza brasiliana muove le sue pedine nelle stanze della diplomazia. Marina Silva, ministra dell’Ambiente, guida consultazioni serrate per una possibile cover decision, una dichiarazione politica collettiva da approvare nella plenaria finale. È un ritorno a una prassi abbandonata a Baku nel 2024, ma che Lula sembra voler rilanciare con ambizione. Obiettivo: un mandato politico chiaro per l’uscita graduale dai combustibili fossili entro il prossimo decennio. Utopia o nuovo corso della diplomazia climatica del Sud globale?
Dietro questa mossa, si intravede un asse politico con la Cina e il tentativo di far convergere le economie emergenti su una roadmap comune per la giusta transizione. Il linguaggio della cover decision in costruzione riflette infatti la priorità data a questo tema, con richiami alla scienza, al ruolo del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) e alle responsabilità storiche dei grandi emettitori. Se confermati i dati sulle emissioni cinesi, Pechino potrebbe accettare di sedersi al tavolo in una posizione più propositiva — un segnale non secondario.
Sul fronte della disinformazione climatica, è stata presentata a Belém la Dichiarazione sull’integrità dell’informazione sul cambiamento climatico, sottoscritta finora da dieci paesi (non ancora l’Italia). Il testo impegna i firmatari a promuovere una comunicazione basata su dati scientifici e nel rispetto dei diritti umani, contrastando fake news e negazionismo. Un passo significativo, se si considera che, secondo il Global Risks Report 2025 del World Economic Forum, la disinformazione e la misinformazione restano per il secondo anno consecutivo i principali rischi globali di breve periodo.
In questi giorni di negoziati e mobilitazioni, il Brasile gioca dunque su due fronti: quello simbolico, dando voce ai popoli che incarnano la resistenza ambientale, e quello politico, cercando di imprimere una direzione concreta al processo multilaterale.
Le proteste non restano fuori dai palazzi: entrano, contaminano, dettano la linea. E forse, in questa COP amazzonica, il vento del cambiamento soffia proprio da lì, dai fiumi e dalle foreste che da sempre sanno come sopravvivere alle tempeste.