Definita l’agenda negoziale, i lavori della COP30 sono entrati nel vivo. A Belém si respira un’aria diversa da quella della scorsa COP di Baku, svoltasi in un clima denso di disfattismo. Prevale la sensazione che si voglia davvero passare dalle parole ai fatti, con più determinazione e concretezza.
Le aspettative sono alte anche alla luce del recente parere consultivo della Corte internazionale di giustizia, che ha stabilito che gli Stati hanno un obbligo giuridico di prevenire i danni climatici e proteggere i diritti umani delle generazioni presenti e future. Una pronuncia storica, che rafforza la base legale dell’azione climatica e aumenta la pressione sui governi perché traducano gli impegni presi in politiche reali.
Nel secondo giorno di negoziati al centro dell’attenzione è stato il tema dell’adattamento, che segnerà tutta la conferenza. È il Sud del mondo a porre la questione al Nord globale: come finanziare l’adattamento dei Paesi più vulnerabili, quelli che subiscono gli impatti più duri della crisi climatica pur avendo contribuito meno alle emissioni? Gli investimenti globali si concentrano ancora sulla mitigazione – perché genera ritorni economici – mentre l’adattamento non produce profitto, ma salva vite e territori.
Questo squilibrio nella finanza climatica tocca da vicino anche l’Italia. A un anno dagli impegni presi a Dubai, non risultano ancora versati i contributi promessi: 300 milioni di euro al Green Climate Fund e 100 milioni al Fondo per Perdite e Danni. Eppure, durante la conferenza stampa di apertura della COP30, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Pichetto Fratin ha annunciato un deciso aumento della finanza italiana per il clima: 3,44 miliardi di euro nel 2024, contro 838 milioni nel 2023. Circa metà provenienti da risorse pubbliche e metà da fondi privati mobilitati. Un incremento significativo, in controtendenza rispetto ai tagli annunciati da altri Paesi donatori, che avvicina l’Italia alla propria quota equa di contributo globale. Restano però alcune criticità: la quota di sovvenzioni a fondo perduto si è dimezzata a favore di prestiti e strumenti finanziari, con il rischio di aggravare l’indebitamento dei Paesi più vulnerabili.
Ma la COP di Belém non si svolge solo nelle sale dei negoziati. Alla Cupola dei Popoli, lo spazio parallelo della società civile e dei movimenti indigeni, il dibattito è vivo e concreto: una transizione giusta deve partire dalle persone e dai territori. A ricordarlo con forza è stata anche la Amazon Flotilla, oltre cento attiviste e rappresentanti dei popoli indigeni che hanno navigato dalle Ande all’Amazzonia per portare alla COP uno sguardo alternativo. Il loro messaggio è chiaro: “Per risolvere la crisi climatica serve innanzitutto dare potere ai popoli indigeni”. La soluzione nasce dal basso: dai popoli che da secoli custodiscono la foresta, dai territori che resistono agli impatti del cambiamento climatico e da una cooperazione che metta finalmente la giustizia al centro. Belém può essere il luogo dove questo dialogo tra governi e società civile trova una nuova sintesi: concreta, equa e condivisa.