lo spunto
È chiaro che il limite di mandati (come quello stabilito per il presidente della Provincia) è un antidoto al grande potere derivato dall’elezione diretta. Nel momento in cui non c’è più un’elezione diretta il limite di mandati perde il suo significato. Le riflessioni sul tipo di elezione che riguardano il presidente trascendono la questione del terzo mandato. L’ipotesi che la legge trentina possa virare (ritornare n.d.r.) in chiave proporzionale come gìà avviene in Valle d’Aosta e in Alto Adige non è solo questione di sistema elettorale, ma di forma di governo (che si intende perseguire). Nel caso dell’elezione indiretta, proprio perché non c’è ragione di insistere sul “contrappeso” la questione dei limiti del terzo mandato viene a cadere.
Daria de Pretis
(Giudice emerita della Corte costituzionale “l’Adige” 7 novembre 2025)
Nell’attesa che la Corte Costituzionale renda note le motivazioni con le quali ha respinto la legge trentina che consentiva la candidatura a un terzo mandato per il presidente Maurizio Fugatti, l’interpretazione più convincente della sentenza viene dalle dichiarazioni della prof. Daria de Pretis, già rettrice dell’Università di Trento e giudice della Consulta.
Da qui può ripartire, fra le forze politiche e fra i cittadini elettori, una riflessione non solo formale sull’autonomia e sulle condizioni che la sorreggono, sulle prassi di metodo che la legittimano e che non possono ridursi solo a una questione di competenze, maggiori o minori che siano, rispettate o disattese.
La Corte, infatti (nelle parole della prof. de Pretis) si è espressa per garantire che vengano rispettati i principi di equità e libertà costituzionali (che la Costituzione garantisce e deve garantire a tutto il Paese, a tutti i territori autonomi o meno, ma non certo sovrani) a fronte del rischio che essi possano essere stravolti da candidature avvantaggiate già in partenza da posizioni dominanti per quanto riguarda sostegni economici e mediatici, come da presenzialismi demagogici.
Questi rischi, da sempre presenti nei sistemi elettorali diretti, plebiscitari (spesso populistici più che popolari) oggi appaiono ancor più diffusi che in passato, alimentati come possono essere da una rete informatica pervasiva, condizionata ormai in tutto il mondo, anche nei Paesi di più antica tradizione “democratica”, dove si era radicato un bipolarismo che non a caso ora si sta sgretolando.
La minaccia riguarda anche la dimensione locale, ne danno testimonianza gli stessi mutamenti nel linguaggio politico, che ora sempre più frequentemente definisce “governatore” chi era sempre stato chiamato “presidente della Provincia”.
Non si tratta solo del solito “americanismo” o di copiare maldestramente istituzioni e metodi che altrove possono anche funzionare, ma che nella realtà italiana portano a distorsioni ed esasperazioni (come le “primarie”, che finiscono per selezionare gli esponenti più radicali, o come il bipolarismo che finisce per trasformarsi sempre in scontro fra fazioni, guelfi e ghibellini, quasi mai in alternanza leale).
Fra governatore e presidente esistono reali differenze di ruolo e di stile di potere che proprio dalla vicenda Fugatti traspaiono. Un “governatore” eletto direttamente mantiene comunque i suoi poteri anche se non ha una maggioranza “consiliare” (il parlamentino locale, il Consiglio provinciale) che lo sostiene.
Due mandati significano dieci anni di potere quasi assoluto e possono bastare. Possono già essere troppi analizzando alcune scelte fatte, avvolte di un fumo elettoralistico non proprio felice.
Il secondo aspetto riguarda invece la “presidenza”, conseguenza di un possibile ritorno ad una elezione indiretta, con sistema proporzionale (come è stato per tutta la fase di costruzione dell’autonomia e come è ancora per l’Alto Adige) dove il “presidente”, è primo fra pari eletti che deve rispettare e con cui deve collaborare e se ne perde la fiducia, la maggioranza che lo sostiene, deve lasciare il suo incarico.
Questo “vecchio sistema” consentirebbe ai candidati di ripresentarsi senza limiti di mandato (non è facile trovare gente competente per gli incarichi di responsabilità, o capaci di intessere accordi ed alleanze invece di “governare” circondati solo dalla propria cerchia di fedelissimi). Consentirebbe probabilmente anche una maggior partecipazione al voto perché sono molti gli elettori, e non solo giovani, che non si riconoscono nella scelta che l’attuale, approssimativo “bipolarismo” presenta loro.
Infine, consentirebbe all’autonomia di essere se stessa, perché l’autonomia è tale non se rappresenta un territorio in modo dirigistico, suscitando separatezze, ma se promuove partecipazione, se sa coinvolgere anche le minoranze, se valorizza le diversità e ne accoglie le voci.
Vale la pena riflettere su queste prospettive, perché i sistemi elettorali non possono venir ridotti a mezzi strumentali per ottenere consensi o maggioranze più o meno risicate, ma si rivelano lo specchio delle comunità che devono esprimere.
In questo senso l’impressione è che con la scelta sulla legge del terzo mandato la Corte abbia voluto non solo giudicare una norma, ma ribadire una lezione di costituzionalità valida per tutto il Paese, naturalmente anche per le regioni e le province ad autonomia speciale.