COP30, quinto giorno e bilancio della prima settimana: lobbisti dei combustibili fossili contro popoli originari?

Il presidente della COP 30 André Correa do Lago incontra gli indigeni dell’etnia Munduruku © Felipe Werneck/COP30

I lavori negoziali della prima settimana sono partiti spediti e la presidenza brasiliana sta cercando di mantenere un clima costruttivo su mitigazione, adattamento e transizione giusta. Allo stesso tempo, su molti tavoli si registrano tensioni crescenti, in particolare sulla finanza climatica, dove restano aperte le domande su chi debba contribuire, con quali risorse e a quali condizioni. Tensioni prevedibili, che rispecchiano l’attuale quadro geopolitico.

La principale novità riguarda la possibilità di arrivare a un testo finale particolarmente ambizioso: il Brasile, grazie a un’intesa con la Cina, sta spingendo per includere un chiaro percorso di uscita dai combustibili fossili entro dieci anni. La proposta è sostenuta da Regno Unito, Germania, Danimarca, Kenya, Colombia, Francia e Isole Marshall. Se approvata, rappresenterebbe un risultato storico e decisivo per mantenere credibile l’Accordo di Parigi e contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2 gradi.

Accanto ai segnali positivi, le tensioni sono però evidenti, sia nelle forme più visibili sia in quelle più sotterranee. Le prime riguardano la partecipazione: a Belém i popoli originari stanno reclamando un ruolo reale nei negoziati. Le proteste non sono contro la COP, ma per entrarci. Il movimento Munduruku Ipereg Ayu ha bloccato l’accesso principale chiedendo un incontro con il presidente Lula, il rispetto del consenso libero, previo e informato e la revisione di progetti federali ritenuti dannosi. Nel loro comunicato criticano anche strumenti come i crediti di carbonio, considerati inefficaci nel ridurre le emissioni alla fonte. COP30 era stata descritta come “la COP dei popoli indigeni”: garantirne l’accesso ai tavoli negoziali resta un punto decisivo. Questi eventi riportano al centro il tema della governance climatica e dei rapporti di potere tra centri decisionali e periferie, ma anche il ruolo dei vertici ONU, strumenti imperfetti ma ancora fondamentali.

Alle tensioni visibili si aggiunge la presenza, meno appariscente ma molto influente, dell’industria fossile. A Belém sono registrati oltre 1600 lobbisti dei combustibili fossili, il 12% in più rispetto alla COP di Baku, dove il numero aveva già suscitato scandalo. Una presenza che, insieme ai petrostati e ai loro alleati, tende a rallentare i negoziati, proponendo alternative che spostano l’attenzione dalle riduzioni reali delle emissioni. Tra queste “soluzioni” ricorrono spesso sistemi di contabilizzazione delle emissioni e tecnologie di cattura del carbonio che, secondo molti esperti, mirano soprattutto a ridurre la responsabilità delle aziende fossili e permettere loro di continuare a operare senza modifiche sostanziali. Emblematica la posizione del CEO di Exxon, Darren Woods, che propone un nuovo sistema di calcolo basato sulle emissioni generate dai consumatori piuttosto che da chi estrae e vende combustibili. Un approccio che sposta il peso lontano dai produttori e accompagna l’investimento in tecnologie considerate complementari, non alternative, all’uso di petrolio e gas.

Il riferimento è collegato al tema più ampio della rimozione della CO₂. Il Land Gap Report 2025, pubblicato ieri, segnala che molti piani nazionali di riduzione delle emissioni (NDC) continuano a fare affidamento su una capacità dei suoli di assorbire carbonio che sta diminuendo. Un’impostazione che rischia di ritardare l’eliminazione graduale dei combustibili fossili: il messaggio centrale del rapporto è che la priorità resta smettere di emettere CO₂, non sperare di compensarla.

In questo quadro si inserisce anche il ruolo degli Stati Uniti: pur fuori dall’Accordo di Parigi e quindi non presenti nella COP in senso formale, restano attivi attraverso una fitta rete di relazioni diplomatiche ed economiche, spesso allineate agli interessi del settore fossile e dei petrostati, con un impatto rilevante sui Paesi più vulnerabili.

Nel complesso, dietro le foto ufficiali emergono due direzioni opposte: da un lato gli attori economici e politici che tentano di rallentare, deviare o ridimensionare la transizione; dall’altro popoli originari, movimenti sociali, gran parte della società civile e molti politici e negoziatori – tra cui l’Unione europea e vari Paesi che, pur tra difficoltà, continuano a difendere un percorso di transizione credibile e coerente con gli obiettivi climatici.

Oggi questi temi saranno al centro anche della Grande marcia per la giustizia climatica, guidata da popoli originari, quilombolas, pescatori, giovani, lavoratori, donne e bambini. In parallelo, a Roma si svolge il Climate Pride, sostenuto da oltre 80 associazioni italiane. Le prossime giornate diranno se queste mobilitazioni riusciranno a incidere sull’esito finale dei negoziati.

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