Belém, 15 novembre — A Belém la voce delle persone ha preso il centro della scena della COP30. Settantamila manifestanti hanno riempito le strade della città chiedendo giustizia climatica e difesa dei diritti dei popoli indigeni. In parallelo, in decine di città in Europa e in tutto il mondo – a Roma il Climate Pride ha portato in piazza diecimila persone – cittadini e movimenti ambientali hanno rilanciato lo stesso messaggio: la transizione ecologica deve essere giusta, inclusiva e guidata dalle comunità.
La grande marcia di Belém è stata organizzata dalla Cupola dei Popoli, un’iniziativa autonoma e parallela ai negoziati ufficiali, animata da centinaia di associazioni, collettivi e movimenti sociali. Uno spazio indipendente dove convergono istanze, proposte e visioni di chi vive in prima linea la crisi climatica. Dopo anni in cui le proteste sono state limitate nell’ambito dei vertici internazionali, quella di oggi è stata la prima grande marcia legata a una COP dai tempi della COP26 di Glasgow nel 2021.
In testa al corteo c’erano popoli indigeni, comunità quilombola, pescatori e pescatrici, giovani, lavoratori e realtà della società civile brasiliana e internazionale. Il messaggio al mondo è stato netto: il futuro deve essere deciso dalle persone, non dai profitti. Come ha ricordato Patxon Metuktire, rappresentante del popolo Kayapó, le comunità indigene “sono molto più avanti dei governi” nel mettere in pratica strategie reali di protezione del clima. La difesa delle foreste, la cura dei territori, la salvaguardia della biodiversità sono attività quotidiane che rappresentano già oggi un modello di contrasto alla crisi climatica.
Dalla marcia è arrivata anche una critica profonda all’attuale modello economico e a molte delle soluzioni proposte nei negoziati. “Capitalismo ecologico” è un ossimoro, sostengono molti partecipanti, perché promette sostenibilità senza scalfire i meccanismi che hanno generato l’emergenza climatica. A confermarlo ci sono i dati: secondo le ultime stime del Global Carbon Project, nel 2025 le emissioni globali di gas serra sono aumentate dell’1,1%, nonostante l’espansione record delle energie rinnovabili. Le false soluzioni servono spesso solo a difendere lo status quo, mentre la crisi continua ad aggravarsi.
In questo quadro, i movimenti riuniti a Belém propongono un nuovo paradigma finanziario basato su contributi pubblici a fondo perduto e non su prestiti che alimentano nuovo debito. L’obiettivo è permettere ai Paesi del Sud globale di realizzare transizioni energetiche e sociali giuste, libere da condizionalità e basate sull’autonomia decisionale, sul trasferimento tecnologico e su forme di riparazione per i danni storici subiti. Allo stesso tempo, è stato sottolineato che anche le comunità più vulnerabili del Nord globale hanno bisogno di una transizione equa: la frattura non è tra Sud e Nord, ma tra il bene comune e la ricchezza concentrata nelle mani di pochi. Le crescenti disuguaglianze – sempre più marcate anche nel nostro Paese, dove secondo l’ultimo rapporto Caritas il 10% delle famiglie più ricche detiene il 60% della ricchezza complessiva – rendono evidente che la crisi climatica è intrecciata a una crisi sociale più ampia.
Un altro nodo centrale è la disinformazione. Una mappatura di InfluenceMap evidenzia che la maggior parte delle narrazioni fuorvianti nel dibattito energetico internazionale proviene dagli amministratori delegati delle grandi compagnie petrolifere e del gas. Un flusso costante di messaggi distorti che condiziona l’opinione pubblica e ritarda le decisioni politiche necessarie. Per i movimenti, questa è la prova che la transizione non può essere lasciata nelle mani di chi trae profitto dall’estrazione di combustibili fossili.
Nonostante questi ostacoli, la marcia di Belém ha mostrato con forza il potere collettivo delle persone. Quando cittadini, comunità indigene, attivisti e lavoratori si mobilitano insieme, possono riequilibrare rapporti di forza che altrimenti sembrano immodificabili. Con l’inizio della seconda metà della COP30, l’attenzione si concentra ora sul possibile varo del Belém Action Mechanism (BAM), un meccanismo pensato per sostenere una transizione globale giusta. Il BAM, nelle intenzioni dei suoi promotori, dovrebbe fornire strumenti concreti e finanziamenti adeguati affinché i Paesi possano abbandonare gradualmente i combustibili fossili senza scaricare i costi sociali sulle comunità più fragili.
Al BAM si affianca la richiesta di una roadmap chiara e vincolante per l’uscita dai combustibili fossili, insieme a un incremento significativo dei finanziamenti per il clima, in particolare per l’adattamento agli impatti ormai inevitabili della crisi. Le strade di Belém, di Roma e delle tante città che hanno manifestato in contemporanea hanno già indicato la direzione: la giustizia climatica non è un tema per specialisti, ma un progetto collettivo che nasce dal basso. Ora la responsabilità passa ai governi, nella seconda settimana di negoziati non più tecnici ma politici.