«Come non pensare al lavoro infinito, lento, quotidiano e profondo che, chi ha subito un abuso, ha dovuto affrontare per ricostruire un rapporto di RISPETTO verso la propria ferita. RISPETTO verso quella allora bambina, donna oggi che prova ogni giorno a portare avanti la vita cercando di non esser definita dall’abuso subito». Così racconta una donna abusata da bambina da un sacerdote, un sacerdote di fiducia, riferendosi a quella parte di sé rimasta ferma a un tempo lontano. Le sue parole dischiudono la fatica silenziosa di chi, sopravvissuto a una violenza, affronta un lavoro interiore lento, paziente, estenuante: ricostruire un rapporto di rispetto verso la propria ferita, restituire dignità a quella bambina che non poté difendersi.
Il rispetto, in questo contesto, diventa un concetto denso, quasi corporeo. È un movimento che parte dall’interno: riconoscere i confini che sono stati violati, dare un nome alle emozioni rimosse, accettare che la vulnerabilità non è un’imperfezione, ma una parte della condizione umana. Il rispetto è una pratica quotidiana: un modo di abitare la propria storia senza esserne intrappolati. Quando la violazione avviene in un contesto che avrebbe dovuto essere protettivo, il tradimento assume una dimensione moltiplicata. La donna lo esprime con lucidità: «Come non risentire innanzitutto le urla di rabbia per il NON RISPETTO di una persona adulta che ha annusato abilmente la mia vulnerabilità e, in nome del suo essere prete, ha usato il suo ruolo e il suo potere per tradire la fiducia che avevo riposto in lui».
Questa ferita personale, così profonda e intensa, non rimane circoscritta alla sua esperienza: l’abuso incrina i legami, disorienta chi ne è testimone e irrigidisce il silenzio. L’atto violento si propaga oltre l’individuo, e ogni comunità che assiste a una simile violenza porta la responsabilità di interrogarsi su come e perché quella ferita sia stata possibile, sulle condizioni che l’hanno resa tollerabile e sul ruolo di ciascuno nel prevenirla. “Generare relazioni autentiche”, tema della veglia di quest’anno, è quanto mai pertinente in questo contesto. Si tratta infatti di fare memoria di una ferita ancora aperta, che ha minato la fiducia in un’istituzione che dovrebbe incarnare amore, cura e rispetto per ogni persona, in particolare per i più vulnerabili.
La veglia del 21 novembre diventa così un momento di preghiera, ma anche di riflessione e di azione. «Lasciate che i piccoli vengano a me» (Mc 10,14), è un richiamo forte e potente perché Gesù mostra così una cura infinita verso i più deboli, i più fragili, i più vulnerabili. Non è un messaggio per il passato, ma per il presente, per il nostro cammino di fede oggi. Quando la Chiesa dimentica il rispetto per i piccoli, per i vulnerabili, essa perde la sua identità più autentica. Quando l’abuso – psicologico, fisico, sessuale, di coscienza, di potere, spirituale – entra nelle sue mura, essa tradisce quel principio fondamentale che è il rispetto per la dignità inviolabile della persona. Rispetto significa “toglierci i sandali” davanti all’altro, come scrive Chiara Griffini; significa riconoscere che ogni persona porta con sé una storia complessa, un territorio interiore che merita cautela, attenzione, ascolto. Significa comprendere che l’altro non è mai un’estensione di noi, né un oggetto su cui esercitare potere o influenza.
Le testimonianze delle vittime di abusi ci ricordano un gesto semplice e decisivo: chiedere permesso. Non è mera cortesia, ma un atto etico. Significa riconoscere il limite e l’interiorità dell’altro, farsi prossimi senza invadere, entrare in relazione senza manipolare. È un movimento discreto che protegge, crea fiducia e restituisce spazio. Quando questo gesto manca, quando si oltrepassa senza scrupoli la soglia dell’intimità altrui, la ferita non riguarda solo la vittima.
L’intero tessuto relazionale si lacera: si diffonde la diffidenza, si incrina la capacità di affidarsi, si irrigidiscono gli scambi. Un abuso non è mai un evento isolato; porta con sé un’eco che rimbalza per anni dentro le persone e la comunità intera. Le voci delle vittime sono preziose. Non sono “solo” memorie di dolore: sono mappe, orientamenti, richiami alla responsabilità. Ascoltarle significa uscire dal torpore, rinunciare alla comodità della distanza, lasciarsi interpellare. “Costruire relazioni autentiche” in questa accezione significa realizzare contesti capaci di accogliere senza soffocare, proteggere senza controllare, accompagnare senza sostituirsi. Significa educare allo sguardo attento, alla parola misurata, alla responsabilità dei gesti. È un cammino lento e attento, che esige il coraggio di mettere in discussione abitudini sedimentate, ruoli consolidati e silenzi troppo a lungo tollerati.
Le testimonianze delle vittime sono la guida che ci invita a non dimenticare, a non giustificare mai l’ingiustificabile, e a costruire una cultura che vada oltre la condanna, ma che lavori per un cambiamento profondo, che parta da ciascuno di noi. Loro ci indicano la via per ricostruire una Chiesa che sappia veramente proteggere, accogliere e guarire. Nel ricordare le vittime oggi, non siamo chiamati solo ad abitare quel dolore, ma a un impegno profondo e radicale: trasformare l’ascolto in attenzione consapevole, in presenza autentica, in cura del legame e in responsabilità condivisa che accompagna. È un percorso lento e paziente, in cui chi porta una ferita può iniziare a sentirsi visto, creduto, ascoltato e rispettato, e in cui la comunità può avanzare, passo dopo passo, verso relazioni autentiche, come faro di speranza.