Belém, 20 novembre – Alla COP30 i negoziati sono proseguiti senza passi decisivi. La plenaria tanto attesa non è stata ancora annunciata e, nel pomeriggio, i lavori sono stati sospesi a causa di un incendio nella Blue Zone: un episodio rapidamente domato, ma sufficiente a far evacuare l’area. L’atmosfera riflette l’incertezza di un vertice che, a pochi giorni dalla chiusura, non ha ancora trovato un’intesa sulla roadmap per l’uscita dai combustibili fossili.
Le difficoltà sono evidenti. La proposta lanciata dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva — che intende portare il piano anche al G20 di Johannesburg per rafforzarne il sostegno politico — si scontra con la netta opposizione di diverse petromonarchie e grandi economie emergenti. Nonostante 82 governi abbiano firmato la roadmap, rappresentano solo il 7% della produzione globale di petrolio, gas e carbone. Russia, Cina, India e Sudafrica avrebbero già comunicato alla presidenza brasiliana di non accettare il testo, mentre il gruppo dei “like-minded developing countries”, che riunisce molti produttori di combustibili fossili, esprime forti riserve. Il risultato è che la roadmap sarebbe stata rimossa dall’ultima bozza del negoziato, in un clima di crescente riservatezza: i colloqui delle ultime ore si sono svolti in gran parte a porte chiuse, con segmenti di testo mostrati separatamente ai diversi gruppi di Paesi.
Dietro le quinte, tuttavia, il margine di trattativa non è del tutto scomparso. Alcuni negoziatori di Arabia Saudita e Cina avrebbero lasciato intendere un’apertura, a condizione che ogni Stato possa definire il proprio percorso di transizione. L’India resta più cauta. I Paesi meno sviluppati, dal canto loro, potrebbero spostarsi su posizioni più flessibili se l’Unione europea e gli Stati industrializzati garantissero un impegno finanziario più chiaro. Bruxelles considera ormai la roadmap una linea rossa, ma per convincere gli altri dovrà mostrare disponibilità a sostenerne i costi. A complicare ulteriormente il quadro, ci sono le tensioni interne al Brasile, dove l’influenza delle lobby del settore petrolifero e agricolo limita il raggio d’azione del governo.
Proprio l’agricoltura è la grande assente di questa COP. Nonostante il settore sia responsabile di circa un terzo delle emissioni globali e subisca già gli impatti più severi del riscaldamento climatico, il tema è stato rinviato ai prossimi appuntamenti. Un risultato sorprendente, considerando che il vertice si svolge in Brasile, epicentro dell’agrobusiness mondiale e primo esportatore globale di carne bovina. Nel Paese, il cambio d’uso del suolo e l’agricoltura rappresentano rispettivamente il 36% e il 31% delle emissioni totali. A Belém, però, non è arrivata nessuna decisione vincolante. Un’occasione mancata, soprattutto in un continente dove pratiche alternative e sostenibili sia per l’ambiente che per le persone, come l’agroecologia, sono già radicate.
Come si evolveranno i negoziati finali? Una nota positiva arriva dall’Unione europea, che ha superato le proprie divisioni interne — con Italia e Polonia inizialmente contrarie — e ha trovato una posizione unitaria a sostegno della roadmap. Bruxelles chiede che il percorso sia collaborativo, fondato sulla scienza e integrato nei Piani nazionali di riduzione delle emissioni, con un rapporto annuale sullo stato di avanzamento. È un tentativo di rilanciare il negoziato e di spostare l’ago della bilancia, ma resta da capire se i Paesi produttori di combustibili fossili accetteranno questo passo avanti. Il tempo, intanto, scorre più veloce dei compromessi.