“Mi ha spiegato un argomento di cui ho esperienza e conoscenza usando un tono saccente e paternalistico”. “Mi ha corretta sul lavoro e la correzione era banale o scorretta”. Questi comportamenti si chiamano mansplaining e si verificano quando un uomo spiega a una donna un concetto di cui lei è già a conoscenza ed è esperta, presupponendo però che lei ne sappia meno.
E quelle elencate sono solo alcune delle domande alle quali hanno risposto 457 donne, residenti dal nord al sud della Penisola, che hanno partecipato allo studio “Mansplaining e inciviltà sul posto di lavoro, meccanismi di bullismo rivolti alle donne?”, condotto da Miren Elizabeth Chenevert, dottoranda in Scienze cognitive al Dipartimento di Scienze cognitive (Dipsco) dell’Università di Trento, con la supervisione scientifica di Michela Vignoli, professoressa di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni al Dipsco.
Lo studio, durato un anno, si è concluso lo scorso mese di giugno e adesso sono stati elaborati i primi risultati. E ha confermato le ipotesi iniziali. Le donne che hanno vissuto in un primo momento comportamenti di inciviltà sul posto di lavoro successivamente hanno subìto una messa in discussione delle loro competenze fino ad arrivare a vere e proprie forme di bullismo professionale e mobbing. La ricerca dimostra che la maleducazione generale può aumentare, non solo in termini di intensità e intenzionalità nel tempo, ma anche in termini di selettività degli obiettivi e specificità comportamentale, spostandosi in modo sproporzionato verso forme di maltrattamento di genere che minano la competenza e il lavoro delle donne.
Un altro aspetto interessante che è emerso dal lavoro è che non sempre c’era consapevolezza da parte delle donne che le situazioni vissute potessero rientrare nella cornice della violenza di genere. Cognizione che invece è arrivata rispondendo al questionario.