Il voto alle regionali cristallizza le posizioni

Corriere della sera

L’interpretazione dei risultati elettorali è come l’interpretazione dei sogni o quella del volo degli uccelli: non che sia impossibile fare analisi un minimo scientifiche, ma in generale c’è il massimo spazio perché ognuno ci legga quel che gli piace vedere. Anche per la tornata delle regionali d’autunno è andata come sempre: il quadro era abbastanza evanescente da lasciar modo a tutti di cantare più o meno vittoria. L’analisi scientifica di una fonte autorevole come l’Istituto Cattaneo di Bologna certifica che è tutto abbastanza fermo: si stabilizza la geografia che più o meno si era vista nelle europee e nelle politiche.

Anche i flussi non registrano spostamenti molto significativi da un partito ad un altro: non ci sono segnali di grandi ribaltoni né in una direzione, né in un’altra. Lo conferma la crescita notevolissima dell’astensionismo, che già era giunto a livelli preoccupanti: stiamo parlando di una flessione che a livello complessivo ha registrato 14 punti in meno. Segno evidente, continuiamo a dirlo, che gran parte dell’elettorato non crede di avere in mano uno strumento che gli consenta di incidere sull’andamento della politica, per cui si accontenta di quel che c’è non ritenendolo catastrofico (o comunque pensando che tanto non può cambiare corso).

Nonostante tutto qualche segnale gli esiti complessivi delle urne ce lo trasmettono. In primo luogo che i sistemi regionali sono conglomerati di poteri per cui chi li governa parte avvantaggiato: infatti destra-centro e campo largo si tengono ciascuno le regioni che già avevano (3 a 3, per buttarla sul calcistico). Per sfidare lo status quo non serve appellarsi ai “personaggi” (dirompenti?) inventati dai caminetti romani: Ricci nelle Marche, Tridico in Calabria sul versante campo largo, così come Cirielli su quello FdI governativi, hanno fatto flop. A riprova si è visto che paga la continuità moderata delle gestioni regionali: Giani in Toscana, Acquaroli nelle Marche, Occhiuto in Calabria sono conferme. Ma dove il ricambio era imposto dalla logica del limite dei due mandati i vincitori hanno dovuto presentarsi come i continuatori delle politiche precedenti: evidentissimo in Veneto dove Stefani stravince sulle ali del “doge” Zaia, un po’ meno evidente in Puglia dove la vittoria di De Caro avviene certo con una piccola rottura con Emiliano, ma nel solco di una continuità localistica, chiara anche in Campania dove Fico si afferma perché gli hanno aperto la porta sia l’uscente De Luca, con cui ha dovuto venire più che a patti, sia il sempre più determinante sindaco di Napoli Manfredi.

Poco è mutato nella geografia dei partiti. A giocarsela in maniera determinante sono in sei: da un lato FdI, Lega e FI, dall’altro PD, M5S, AVS. Ci sono, ma non dovunque, movimenti legati a fenomeni stravaganti: non ci riferiamo alla solita presenza di partitini dell’1% o dello 0,%, roba da sceneggiate buone al massimo per qualche comparsata nei talk show, ma a qualche piccolo successo più o meno alternativo come “Toscana Rossa”, la lista Szmuski in Veneto, la lista dei riformisti renziani in Campania. In verità il cambiamento più forte, se troverà conferme, è nell’indebolimento notevole dell’appello alla radicalizzazione degli scontri. Una parte non piccola dell’elettorato sta mostrando di non gradire affatto queste derive demagogico-populiste, vuoi astenendosi, vuoi votando candidati che vengono variamente catalogati come moderati o riformisti.

Per un momento questo vento di cambiamento è stato colto sia da Giorgia Meloni, che ha fatto una dichiarazione molto istituzionale congratulandosi con tutti i vincitori e augurandosi dialogo e collaborazione, sia dai vincitori di quest’ultima tornata e anche da alcuni dei perdenti (così non era stato nelle tre tornate precedenti). Lo stesso Salvini, consapevole che la vittoria della Lega in Veneto porta il marchio della “filosofia” di Zaia e non certo della sua, è stato relativamente parco di intemerate politico-partitiche (si è dato al populismo sulla vicenda dei cosiddetti bambini del bosco).

Si arrenderanno i vari fan-club delle curve politiche a questo ipotetico cambio di clima? Non sarà facile. La sciagurata vicenda del referendum costituzionale sulla riforma Nordio è lì ad illudere troppi che ci sia una meravigliosa occasione per trasformare il paese nel campo di battaglia fra neo guelfi e neo ghibellini: sono convinti che così si stabilizzerà il dominio del centro destra o si restaurerà il potere del radicalismo di sinistra. Il rischio pesante è invece che si sfasci definitivamente quel tanto di coesione sociale e culturale che nonostante tutto ci tiene ancora in discreta salute.

vitaTrentina

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