Ogni giorno c’è un mondo che nasce

Le mie parole non passeranno. Illustrazione di Lorena Martinelli

Il brano del Vangelo di Marco, che la liturgia di questa domenica ci presenta, colpisce prima di tutto per la sua visione «apocalittica», da fine della storia, di distruzione di ogni cosa, di terra e cielo che passano.

Succede così in ogni passaggio d’epoca. Il Duemila era atteso come l’anno in cui si sarebbero dovute compiere profezie mostruose, Dio sarebbe tornato a fare finalmente giustizia di un mondo che lo aveva rifiutato. Ricordo le telefonate che ricevevo da cattolici un po’ troppo “zelanti”, il cui contenuto era di prepararsi per i giorni della vendetta. Marco riflette in quello che scrive una tendenza culturale e una vicenda storica di quegli anni. Gerusalemme era caduta e davvero la fine del mondo poteva apparire vicina.

Noi abbiamo altri modi di pensare, la scienza ci dice che l’universo ha ancora milioni di anni da vivere. E dunque questo brano su cosa può farci riflettere? Anzitutto sul fatto che forse alcune situazioni reali non sono poi troppo distanti da quello che scrive Marco: pensiamo alle guerre, ai cambiamenti climatici causati dall’uomo, che portano distruzione e morte, alle armi di distruzione di massa, già sperimentate a Hiroshima e Nagasaki, all’Olocausto e ai nuovi campi di concentramento per migranti. E pensiamo anche a una terra dove le risorse sono divise in modo scandaloso, al commercio iniquo di organi. E si potrebbe continuare. Non è però questo l’annuncio che l’evangelista ci vuol dare. Marco annuncia che dentro un mondo che muore ogni giorno, c’è anche ogni giorno un mondo che nasce. Molti punti di riferimento cadono, molte cose vanno in frantumi, ci sono comportamenti che si sgretolano, ma ci sono sempre anche sentori di primavera. San Paolo ci ricorda che il mondo soffre le doglie del parto (Rom 8,12) e il mondo nuovo viene generato nelle sofferenze, nel travaglio, negli sconvolgimenti. Clemente Rebora lo ricorda in un suo verso: «Quanto morire perché nasca la vita»! Si dice che muore la religione, perché nessuno va più in chiesa. E se il nuovo tempio fosse il mondo, l’umanità da amare e da salvare assumendoci le nostre responsabilità, dentro le quali Dio agisce? C’è chi vede solo disgregazione nelle famiglie. Ma se un modo nuovo, più umano di stare insieme, senza costrizioni o sottomissioni, dove tutto diventa ricerca dell’incontro con l’altro, del dialogo che sostituisce quello che troppe volte è solo un monologo apparisse all’orizzonte? L’invito che fa l’evangelista è quello di vivere i conflitti e i cambiamenti come opportunità di crescita, come appello a incamminarsi su strade nuove. E noi siamo chiamati a educarci non soltanto ai conflitti, ma anche alle sconfitte.

Il vescovo di Rieti, mons. Domenico Pompili, in occasione del funerale delle vittime del terremoto di Amatrice e Accumoli: «Non è il terremoto che uccide, uccidono le opere dell’uomo». E spiega: «I paesaggi che vediamo e che ci stupiscono per la loro bellezza sono dovuti alla sequenza dei terremoti. Le montagne si sono originate da questi eventi e racchiudono dentro di loro l’elemento essenziali per la vita dell’uomo: l’acqua dolce. Anche i terremoti sono fenomeni che indicano il divenire e il crescere della creazione». Il tempo è già attraversato dall’eternità, contiene già in sé il nostro destino. E per questo la liturgia, avvicinandosi alla conclusione dell’anno liturgico, ci invita a una profonda meditazione sul senso dell’esistenza e sul suo approdo nel mistero di Dio. E non sarà un approdo casuale, ma preparato dal lungo e spesso tormentato itinerario che ora stiamo percorrendo. Il nostro futuro è già cominciato e il nostro destino lo stiamo parzialmente costruendo o ostinatamente distruggendo.

Le mie parole non passeranno. Illustrazione di Lorena Martinelli

PAROLA CHE RESTA

Che meraviglia guardare il cielo, pensare all’età e alle dimensioni delle stelle! Eppure anche loro, con la loro storia molto più dilatata della nostra, passeranno. Solo la Parola di Dio rimarrà per sempre, eterna, amorevole.
Consiglio creativo: dipingi il cielo con le tempere, usando un blu molto scuro. Per ricreare l’effetto del cielo stellato, prendi un vecchio spazzolino da denti e intingi le setole nella tempera bianca leggermente diluita. Con il dito muovi le setole in modo da far schizzare sul foglio tanti puntini bianchi, che richiameranno le stelle del firmamento.
Per evitare di colorare inavvertitamente mobili o altri oggetti, ti consigliamo di provare questa tecnica artistica all’aperto oppure di foderare con carta di giornale le superfici vicine alla tua scrivania prima di metterti all’opera! l.m.

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