Le regole non scritte di un’elezione imprevedibile

Il Quirinale

Le votazioni per il successore di Sergio Mattarella che iniziano lunedì 24 gennaio rappresentano un passaggio di estrema importanza e delicatezza per il futuro del nostro Paese. Diversamente da quanto avviene in altri Stati, in Italia il Presidente della Repubblica non è infatti una figura di mera rappresentanza, quasi cerimoniale, ma dispone di numerosi e importanti poteri che gli consentono di giocare un ruolo di primo piano nella vita politica. Basta pensare a quanto è stato determinante Mattarella, un anno fa, per la nascita dell’attuale Governo.

La Costituzione pone sul punto tre regole fondamentali. La prima: il Presidente è eletto dal Parlamento in seduta comune integrato dai delegati delle Regioni, il collegio maggiormente rappresentativo di tutto il popolo italiano. Ciò riflette il suo essere rappresentante dell’unità nazionale: dell’unità e della continuità dello Stato al di sopra e al di là delle mutevoli maggioranze politiche, così come dell’unità e indivisibilità territoriale della Repubblica.

Seconda regola: il Presidente della Repubblica è eletto a scrutinio segreto. Il voto segreto evoca generalmente scenari poco edificanti fatti di trame e tradimenti orchestrati da voltagabbana e franchi tiratori che sfruttano il segreto dell’urna per annunciare una cosa e farne un’altra. Ma la regola ha un suo perché, è del tutto ragionevole.

Il voto segreto fa sì che il singolo parlamentare possa seguire la propria coscienza anche contro le indicazioni del partito cui appartiene. Se penso che il candidato che il mio partito mi chiede di votare non sia adatto a fare il Presidente della Repubblica, il voto segreto mi consente di non votarlo (fargli mancare i voti) senza temere di essere punito (cioè di non essere ricandidato) dal mio partito. Così si cerca di fare in modo che venga eletto chi gode davvero della fiducia dei Grandi Elettori e non chi si avvantaggia della disciplina di partito. Insomma, che ci siano dei franchi tiratori, in questo caso, non è sempre e necessariamente un male.

Terza regola: occorre raggiungere la maggioranza dei due terzi nelle prime tre votazioni, dalla quarta è sufficiente la maggioranza assoluta. In altre parole, la Costituzione invita a raggiungere un’ampia convergenza di tutte le forze politiche, di maggioranza e di minoranza, per poter eleggere un Presidente che sia davvero “il Presidente di tutti”. Se però questa ampia convergenza non si riesce a realizzare, per evitare una situazione di stallo, dopo il terzo tentativo si toglie alla minoranza il potere di veto.

Queste le regole scritte, alle quali se ne aggiungono altre di non scritte, tra le quali quella secondo cui il Quirinale è un onore che non si rifiuta, non una carica da rivendicare o per cui candidarsi. Di quest’ultima regola, con la consueta disinvoltura (“chi meglio di me?”), se ne infischia Silvio Berlusconi, paradossalmente proprio nel momento in cui cerca di costruirsi un profilo istituzionale adatto. Ma forse questa volta ha fatto male i suoi calcoli.

C’è una peculiarità nell’elezione che inizia lunedì; per la prima volta il nome più pesante in campo è quello dell’attuale Capo del Governo, Mario Draghi. Far transitare l’inquilino di Palazzo Chigi al Quirinale potrebbe creare qualche rompicapo in punta di diritto nella gestione della formazione del nuovo Governo ma non ha, di per sé, nulla di incompatibile con la Costituzione. È invece inaccettabile l’idea che, eleggendo Draghi Presidente della Repubblica, si possa instaurare in Italia una sorta di presidenzialismo o semi-presidenzialismo di fatto, per cui Draghi continuerebbe a condurre l’azione di governo da una posizione diversa. In uno Stato di diritto sono le persone ad adeguarsi alle istituzioni, non le istituzioni ad adeguarsi alle persone: se verrà eletto Presidente della Repubblica, Draghi farà il Capo dello Stato, non il Capo del Governo da una posizione diversa.

Un’altra ipotesi che circola con insistenza è quella della rielezione di Sergio Mattarella. L’idea piace oggi anche a chi pochi anni fa proponeva di metterlo in stato d’accusa per alto tradimento e attentato alla Costituzione (!), segno evidente della straordinaria capacità del Presidente uscente di costruire unità. In passato, una rielezione era considerata un’ipotesi remota, un caso di scuola, ma nel 2013 vi fu il bis chiesto a Napolitano.
Sergio Mattarella ha fatto capire in tutti i modi di non ritenerla opportuna, per evitare che ciò che è stato un caso eccezionale in condizioni straordinarie diventi la normalità. Eppure sono in molti a ritenere che, se le cose dovessero andare male e non si vedesse altra via d’uscita, l’attuale Presidente, per senso di responsabilità, non potrebbe sottrarsi alla rielezione. Si vedrà se prevarrà la sua indisponibilità o la sua indispensabilità. L’elezione del Presidente della Repubblica è forse la più imprevedibile nel nostro Paese, dove alleanze politiche e legami personali si compongono, si sciolgono e si ricompongono a una velocità impressionante, facendo uscire cardinale chi era entrato papa ed elevando al Colle più alto chi nessuno pensava potesse arrivare lì. E a complicare le cose c’è anche la (infinita) emergenza sanitaria. Ma va detto che, in questa imprevedibilità, in diverse occasioni, classi politiche bistrattate e fortemente delegittimate, sono riuscite a eleggere ottimi Presidenti che hanno esemplarmente servito il bene comune del Paese nel solco della Costituzione. Soffierà anche questa volta questa sorta di laico Spirito Santo?

Davide Paris

Università di Foggia, docente di diritto

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