PNRR, un collo di bottiglia da cui è difficile uscire

Giorgia Meloni. Foto Presidenza del Consiglio dei ministri

La meravigliosa impresa di Giuseppe Conte che avrebbe portato dall’Europa all’Italia circa 200 miliardi da spendere, una specie di Babbo Natale fuori stagione, si sta rivelando per quel che è: il giochetto di un dilettante della politica che non aveva capito in che ingorgo stava trascinando l’Italia. Questa è la realtà con cui oggi tutte le forze politiche dovrebbero avere il coraggio di fare i conti, anziché farsi imbrigliare dalle convenienze di parte: per questo la sinistra preferisce attaccare la Meloni anziché Conte e la destra preferisce criticare Draghi, così si lava la coscienza dall’averlo mandato a casa senza preoccuparsi delle conseguenze.

Oggi si scopre quel che gli esperti del settore sapevano da tempo: come avrebbe potuto un Paese che non riesce neppure ad impiegare nei tempi e bene i fondi che ordinariamente riceve dalla UE portare a termine l’impresa di spenderne nei tempi e con le regole di Bruxelles una marea? Sappiamo bene (l’abbiamo già scritto) che per individuare in fretta i progetti che assorbissero quei finanziamenti si è frugato nei cassetti tirando fuori tutti i progetti giacenti, che per accontentare tutti si è scelto di disperdere per rivoli e rivoletti le opportunità senza curarsi se i “beneficati” sarebbero poi stati in grado di mettere a terra i progetti. Così adesso ci si trova alle prese con un collo di bottiglia da cui non si sa bene come uscire. La soluzione drastica di rinunciare ad una parte cospicua dei finanziamenti del Recovery ci farebbe risparmiare un ulteriore indebitamento (gran parte dei fondi sono a prestito sia pure a condizioni di eccezionale favore), ma ci esporrebbe al giudizio assai poco benevolo dei nostri partner con gravissimo pregiudizio per tutte le nostre iniziative a livello comunitario.

L’altra soluzione è negoziare una revisione dei termini del finanziamento: sia sul lato costi sfruttando l’argomento, del tutto fondato, della crescita dei prezzi delle materie da impiegare (alcune gare d’appalto già aperte sono andate deserte per la non congruità delle remunerazioni), sia sul lato tempistica ottenendo dilazioni sulle scadenze. C’è poi la soluzione acrobatica all’italiana di pasticciare i fondi del Recovery con altri fondi europei, una roba che non ci pare convincente e che inoltre non è molto decorosa. Il governo si trova a camminare sulle sabbie mobili di questo contesto, non vuole negoziare con le opposizioni, che a parole hanno promesso collaborazione, ma non è che diano garanzie di serietà in quest’impegno, e non sa come sopperire alle carsenze delle varie sedi decisionali (le famose “stazioni appaltanti”, per non dire di quelle progettuali) tanto a livello ministeriale quanto a livello di regioni e comuni.

Non si può tacere che una parte delle difficoltà nasce dal fatto che ogni governo, prima Conte, poi Draghi, infine Meloni, ha provato a costruirsi una sua cabina di regia e una sua rete di referenze fatta ovviamente di “persone di fiducia”. Al di là di come nella politica italiana si intenda questa espressione, c’è il fatto per nulla insignificante che un cambio continuo di uomini ed agenzie di riferimento non fa certo svolgere i lavori con la necessaria continuità. Adesso però il governo di Giorgia Meloni sul PNRR si gioca non solo la credibilità di lungo termine (quella che arriva alla fine della legislatura, ammesso che non ci siano crolli anticipati), ma anche quella di breve periodo, cioè il confronto che si avrà alle elezioni europee del maggio 2024. Arrivarci sull’onda di un operoso Paese dove fervono i cantieri con tutte le ricadute che comportano è una cosa, tutt’altra giungerci con sulle spalle lo stigma di quelli che hanno perso una occasione storica di far crescere la nostra economia.

Teniamo anche conto che gli esperti ci dicono che grazie ai soldi del PNRR saremmo in grado di contenere l’espansione del debito pubblico che si annuncia per la continua crescita dei tassi, il che non solo aumenta quel che dobbiamo già pagare, ma impedisce di fare operazioni di raccolta di prestiti sui mercati, perché dovremmo offrire titoli ad alto rendimento, dunque che faranno altro debito. Se quei soldi verranno meno saranno problemi in più per il nostro debito pubblico. Sarebbe urgente a questo punto una operazione di concentrazione degli sforzi e di almeno relativa tregua politica, ma non se ne parla: sia perché tutti vogliono giocarsi a fondo nello scontro intorno alle urne europee, sia perché i fan-club dei diversi partiti, scatenati nei talk sui media, non vogliono che siano tolti argomenti al loro teatro delle maschere.

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