Caccia all’orso con il padre

Le physique du rôle del montanaro ce l’ha. Il volto rugoso, i capelli radi, lo sguardo torvo. Certo non basta, ma aiuta. Marco Paolini è, per la prima volta, attore protagonista, dopo diverse partecipazioni, ne “La pelle dell’orso”, opera prima del padovano Marco Segato, finora documentarista, già assistente di Carlo Mazzacurati.

Tratto dall’omonimo romanzo del veneto Matteo Righetto, il film è ambientato negli anni Cinquanta in un villaggio delle Dolomiti. Il paesaggio è ostile, la fatica tanta, a lavorare in cava o dietro al bestiame depredato dall’orso, i rapporti sono duri, spesso annebbiati dal vino. Anche quelli tra Pietro Sieff (Paolini) e il figlio Domenico (il quattordicenne feltrino Leonardo Mason), “l’occhio” che osserva, quasi da spettatore, questo mondo chiuso e aspro. Una battuta di caccia al plantigrado, la ricerca di un riscatto sociale, séguito di una scommessa di Pietro con il padrone della cava (600mila lire se avrà successo, un anno di lavoro gratis altrimenti) segnerà lo sgretolarsi dell’incomunicabilità tra i due e, nello stesso tempo, il passaggio iniziatico all’età adulta di Domenico che d’ora in avanti potrà guardare tutti a testa alta, seppur portando con sé, indelebilmente, il lutto per la morte del padre. Paolini, autore e attore bellunese che tanto ci ha abituato ad un teatro civile, di narrazione, in forma di monologo, partecipe, sia che raccontasse la tragedia del Vajont come quella di Ustica, dà prova di intensità e misura anche in questa prima opera cinematografica che lo vede in primo piano. Attorniato da un cast di estrazione teatrale ma già avvezzo alla telecamera, co-firma la sceneggiatura insieme al regista e ad una “penna” come Enzo Monteleone. Film di poche parole, La pelle dell’orso (1h e 32 minuti) è stato prodotto dalla padovana Jolefilm (con Rai Cinema), la factory di Paolini e Francesco Bonsembiante, incubatrice delle produzioni teatrali del bellunese. «Era mia intenzione – riflette il regista Marco Segato – fare un film che esplorasse le regole del “genere” senza però rimanerne schiacciato. Ne è uscito un lavoro molto personale, intimo ed essenziale, nell’osservare da vicino gli stati d’animo dei protagonisti e il loro conflitto. Una fiaba nera ancorata alla realtà, dove il realismo della vicenda viene spinto al limite fino a sfiorare il fantastico. Come per l’orso, “el diaol”, elemento quasi soprannaturale, che nella storia incarna le paure più ancestrali». La pelle dell’orso è un piccolo e importante film d’autore, non solo di genere, dagli echi olmiani che in alcune inquadrature naturalistiche e dal forte impatto simbolico ricorda il miglior Malick. Girato, anche se non solo, in val Zoldana, sopra Longarone, nel Bellunese, la “pellicola” è stata premiata come miglior film in Francia, all’Annecy Cinema Italien ed è selezionata per partecipare al coreano Busan International Film Festival.

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