La resilienza delle donne armene

Tra gli ospiti, Marco Roncalli (Fondazione Giovanni XXIII): “Lo sterminio, sempre negato dal governo turco, è una ferita aperta della storia”

Sono coraggiose, disposte a qualsiasi sacrificio pur di salvare i figli, non si arrendono di fronte all'inevitabile. Le racconta così le donne armene Antonia Arslan, docente di letteratura italiana all'Università di Padova, scrittrice e traduttrice del poeta armeno Daniel Varujan (1884-1915), rivolgendosi alla platea di studenti delle classi quinte che hanno partecipato al convegno sul centenario del genocidio degli Armeni (1915-2015), organizzato dalla Fondazione Cassa di risparmio di Trento e Rovereto venerdì 21 novembre all'Auditorium S. Chiara a Trento.

Nel suo intervento, dedicato alla “resistenza delle donne armene nel genocidio", Arslan ha letto brani tratti da alcuni testi che hanno riportato indietro nel tempo, immergendo nell'atmosfera tragica dello sterminio compiuto dai turchi nel pieno della Prima Guerra Mondiale, ma al tempo stesso mettendo in luce il coraggio, la forza, la straordinaria capacità delle donne di lottare per sopravvivere alle deportazioni e salvare i bambini, il futuro del proprio popolo.

"Si dice che la storia è maestra di vita, in realtà non è così, può essere manipolata e sostituita da narrazioni fittizie, però è maestra di conoscenza – ha esordito Arslan – e dopo tre generazioni il giornalista turco Hasan Cemal, nipote di Cemal Paşa, uno dei tre maggiori responsabili del genocidio, è stato capace di compiere un percorso di consapevolezza, dal negazionismo al riconoscimento pubblico di ciò che veramente accadde, scrivendo 1915: genocidio armeno (Guerini e Associati, 2015)".

Lo scorso giugno, la scrittrice è andata a Beirut, in Libano, e ha visitato l'orfanotrofio in cui erano stati portati 1500 bambini armeni. "Cemal Paşa voleva distruggere il popolo armeno e la sua cultura uccidendo uomini, donne e vecchi, ma non i bambini: l'identità culturale sarebbe stata eliminata turchizzandoli, impedendo loro di parlare la propria lingua, dando loro un nome turco, torturandoli, lasciandoli morire per fame".

Solo dopo molti anni sono state raccolte testimonianze su come erano riusciti a sopravvivere e poi a costruirsi un'altra vita: "Oggi in California vivono 900.000 armeni, ma è solo a partire dagli anni ˈ70 che i bambini liberati, diventati adulti, hanno iniziato a raccontare quello che avevano vissuto grazie alla resistenza di donne, che dopo aver perso i loro figli, fecero loro da madri, aiutate dalle giovani missionarie che dal Nord Europa e dall'America andarono in Anatolia e fondarono orfanotrofi e scuole, oppure accettando di lasciarli a famiglie turche o sposando esse stesse un turco". Donne forti che, nonostante l'impossibilità di seppellire i propri cari, morti durante le deportazioni, stupri, rapimenti, matrimoni forzati, hanno saputo sfidare il proprio destino.

Lo spirito che ha permeato la giornata di riflessione è emerso anche dalle parole degli altri autorevoli ospiti tra i quali Marco Roncalli, presidente della Fondazione Giovanni XXIII: "Lo sterminio, sempre negato dal governo turco, è una ferita aperta della storia, quella di un popolo privato perfino del ricordo collettivo. Ma questo è il primo genocidio del XX secolo, occorre studiarlo e promuoverne la conoscenza in modo che, come ha detto Papa Francesco, che per la prima volta ha pronunciato la parola ‘genocidio’ in pubblico durante il suo viaggio in Turchia, la memoria operi come forma di giustizia e via alla pacificazione".

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