Sguardo ad Est

I giovani del Liceo Bonporti in Bosnia Erzegovina: un Paese vicino all'Italia, ma poco conosciuto, teatro di una guerra cruenta che lascia ancora le sue ferite

Non hanno scelto Parigi, Londra, o qualche altra capitale europea, e neppure le “solite” città d'arte italiane. Per il loro viaggio di istruzione, studenti e studentesse delle classi 4a A e 4a B del Liceo Musicale e Coreutico Bonporti di Trento hanno rivolto lo sguardo ad Est, verso quei Balcani attraversati da una guerra conclusa giusto vent’anni fa con l’Accordo di Dayton del novembre 1995, quando loro ancora non erano nati, ma che lascia ancora oggi una pesante eredità. Mostar, Sarajevo, Srebrenica sono state le tappe principali di un viaggio che, dal 12 al 17 aprile, ha portato gli studenti trentini e i tre insegnanti accompagnatori a contatto con la realtà dura, cruda della guerra, e a scoprire il valore e la necessità, anche, della memoria, così come la forza della riconciliazione.

Si erano preparati bene, prima di partire, incontrando Giuseppe Ferrandi del Museo storico di Trento, l'insegnante Alberto Conci, e Maurizio Camin di Trentino con i Balcani (ATB), l'associazione che ha curato il percorso formativo rivolto ai giovani partecipanti, organizzato gli incontri in Bosnia Erzegovina e messo a punto le tappe del viaggio, sostenuto economicamente dall'assessorato alla cooperazione internazionale della Provincia Autonoma di Trento.

Le premesse per accostare nel modo migliore un Paese così vicino all'Italia, ma così poco conosciuto, capace di sorprendere con le sue bellezze naturali, con architetture e con angoli di storia che stimolano la curiosità di approfondirne il passato, c'erano tutte.

Ma sono stati gli incontri con i testimoni della guerra che ha insanguinato i Balcani negli anni Novanta del secolo scorso a lasciare il segno più profondo. Incontri come quello con i responsabili della Caritas di Mostar, che si spende per i disabili dimenticati delle diverse comunità etniche. O come quello con il generale Jovan Divjak, serbo, autore di “Sarajevo mon amour”, che a dispetto della sua appartenenza etnica rimase nella Sarajevo assediata per difenderne la popolazione e, insieme, l'idea che sia possibile l'esistenza di una città realmente multietnica, multiculturale, culla di convivenza, che la guerra con la sua brutalità voleva spazzare via. O, ancora, quello con gli ex detenuti nei campi di prigionia, per confrontarsi con la realtà del perdono e della riconciliazione, che oggi fa dire a chi sperimentò la crudeltà degli aguzzini parole che esaltano il valore del rimanere umani, in qualsiasi circostanza, anche la più disperata: “Ringraziamo di non essere diventati mostri”.

E’ l’umanità che è emersa violentemente nella visita al memoriale di Potocari, che ricorda le 8372 vittime del genocidio avvenuto a Srebrenica nel luglio 1995; lì ragazzi e ragazze del Bonporti, spontaneamente, hanno cominciato a leggere ad alta voce, alternandosi, uno ad uno i nomi delle vittime: quasi a volerli fissare nella memoria, in segno di partecipazione e rispetto. Poi l’incontro, emozionante, con le mamme dell’associazione “Madri di Srebrenica”. E la constatazione che anche dopo tanto odio è comunque possibile costruire vie di riconciliazione, ma queste vanno costantemente ricercate con un lavoro paziente, tenace, da sostenere.

Perché i segnali che dicono che le tensioni ancora permangono – e basta poco per farle riesplodere – non mancano. Sono segni anche piccoli: come l'inconcludente tergiversare del governo centrale che blocca, di fatto, la realizzazione di un progetto – un piccolo segno di speranza – che vorrebbe date un futuro termale a Srebrenica, dove dei 30 mila abitanti di prima della guerra ne rimangono oggi poco più di 2 mila.

“Torniamo con una maggiore consapevolezza di cosa possano significare i conflitti che insanguinano tante parti del mondo, dalla Siria all’Afghanistan, dall’Iraq all’Africa centrale. E con la volontà di guardare in modo diverso al dramma dei migranti, che sfidano la morte per arrivare sulle nostre coste, fuggendo da guerra e miseria”, sintetizzano alcuni degli studenti al rientro a Trento. Passando simbolicamente il testimone a 120 loro colleghi tra i 16 ed i 21 anni dell’Alta Valle di Non e dei paesi della Terza Sponda, partiti alla fine di aprile grazie a un progetto promosso dall’associazione “La Storia siamo noi”, in collaborazione con l’Associazione Trentino con i Balcani, e finanziato dai Comuni e dalle Casse Rurali della Valle di Non. Ma l’invito a partire è rivolto anche agli allievi delle altre scuole del Trentino.

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