Felicità? Essere se stessi

Le riflessioni del filosofo Recalcati a Trento e a Rovereto per “Educa”

"Il primo grande straniero è il nostro cuore: la vita dipende dal cuore, ma nessuno può controllarlo. Siamo governati da questo battito che ci oltrepassa pur essendo all'interno di noi e abbiamo paura di questo, della vita che oltrepassa se stessa, invece dobbiamo fare amicizia con lo straniero e con il nostro cuore".

E chi è più straniero di se a se stesso di un adolescente che, nella ricerca della sua identità e di una realizzazione che abbia come approdo la felicità, scopre desideri destinati inevitabilmente a opporsi alle aspettative che i genitori hanno sulla sua esistenza?

Lo psicoanalista e filosofo Massimo Recalcati ha parlato dell'"utopia della felicità" agli studenti al Teatro Sociale nella mattinata di sabato 16 aprile, a Trento (per la rassegna "Utopia500") e il pomeriggio a Rovereto nella settima edizione di Educa (vedi foto).

Dialogando con la giornalista Cinzia Toller e il pubblico, ha disegnato infatti una mappa di parole – sogno, desiderio, talento, coraggio, ricerca, pazienza, tenacia – simili a stelle polari capaci di orientare e dettare un ritmo in crescendo alla vogata nella navigazione del viaggio della vita in cui ognuno è impegnato.

"La vita umana si nutre di sogni – ha esordito Recalcati – e il sogno è luogo di nutrimento poiché in esso affiora l'inedito e ognuno di noi osa esprimere il proprio desiderio più radicale: diventare ciò che si è, e in tal modo realizzarci come vita felice". In ciò sta il valore positivo dell'utopia, mentre nel suo aspetto patologico è malattia del desiderio impotente, quello che contraddistingue il nostro tempo, dominato dal culto del nuovo e perciò destinato all'insoddisfazione perenne. "Crediamo che la realizzazione dipenda da ciò che non c'è e il capitalista sfrutta astutamente questa convinzione, inducendo a credere che la felicità si trovi nella televisione o nel frigorifero nuovo".

Il vero nuovo, invece, come sosteneva Lacan, è "una piega dello stesso" e mentre la rappresentazione utopica del desiderio dice che la salvezza è sempre altrove, in un altro oggetto o in un altro rapporto, il desiderio si realizza non utopicamente, ma in quello che facciamo ogni giorno. "Felicità è amare quello che si ha, diceva S. Agostino, realizzare ciò che siamo qui, ora. Il Regno è adesso, in questo momento, il volto del Padre è nel Figlio, cioè nel prossimo", ha detto lo psicoanalista ricordando l'episodio del fico maledetto da Gesù, arrabbiato di non poterne mangiare essendo l'albero senza frutti. "La vita si giudica dai frutti che produce, ma li deve produrre adesso, altrimenti diventa un fico secco".

Di fronte alla sofferenza, la felicità è considerata utopia, qualcosa che non appartiene a questo mondo, ma se è vero che "il visibile non esaurisce tutto l'essere, l'utopia è il mistero stesso delle cose, non si trova al di là del mondo che vediamo, ma nel sorriso di mio figlio, in un caffè, una fontana. Per me ogni cosa è un miracolo, utopica in sé, non perché rinvia ad altro, e allora la beatitudine è contemplare il segreto e l'anima delle cose".

Utopia è anche il nome della distanza che abita il rapporto con l'altro: "Siamo costituiti dagli altri, portiamo in noi la loro impronta e prima di tutto quella dei nostri genitori, il marchio dei loro fantasmi e del destino che hanno preparato per noi, racchiuso nel nome che ci hanno dato, ma siamo fatti anche di ciò che ci hanno trasmesso, delle passioni ereditate che ci orientano nel mondo".

Non esiste però una misura universale della felicità e i genitori devono lasciare i figli liberi di trovare la propria, rispettandone inclinazioni, particolarità, attitudini. "Il talento è sempre irregolare, fatichiamo a riconoscerlo, ma l'irregolarità indica che c'è sufficiente separazione dalla pretesa autoritaria o dalle esigenze narcisistiche dei genitori, e l'inclinazione, se è tale, è costante, seria". Il nome del desiderio quindi è l'insistenza: "La vita è felice quando fa quello che desidera, e desiderare è nutrire il nostro talento".

La fedeltà al desiderio si manifesta perciò nel coltivare con rigore e disciplina quello che siamo, non quello che altri vorrebbero fossimo, imprigionandoci nella loro utopia. Ma come andare verso ciò che si è? "L'unico criterio per capire cosa rende felici e che la via presa è quella giusta è il grado di soddisfazione mentre fai quello che desideri e quando facciamo bene ciò che ci piace moltiplichiamo il talento".

A ognuno spetta la responsabilità di non sprecarlo e occorre coraggio per obiettare al sogno dell'altro, accettando di diventare la sua delusione, ma, rievocando la parabola dei talenti, Recalcati ha invitato gli studenti a non nascondere il proprio sotto terra per paura di perderlo. "I genitori stessi sono vittime della logica della produttività, ma occorre pazienza: chi fallisce è alla ricerca di quello che desidera e ha bisogno di tempo per smarrirsi e poi rintracciarsi". Dunque, per guadagnare la possibilità di agire dobbiamo perdere noi stessi, realizzando la vocazione alla felicità impressa nel talento che abbiamo ricevuto in eredità: "Voler fare quello che si desidera, con tenacia: solo questo porta abbondanza di vita generosa, mentre compito dei genitori è avere fede nell'utopia buona del desiderio insistente del figlio, rendendolo più forte nella ricerca della sua via alla realizzazione, quella che poi scopre di aver già preso perché da sempre scritta in lui".

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