Con “La stanza accanto”, suo primo film in lingua inglese, il regista spagnolo Pedro Almodóvar affronta il delicato tema dell’eutanasia affidandosi a due attrici Premio Oscar che incarnano posizioni opposte, l’androgina Tilda Swinton (Martha) e l’affettuosa Julianne Moore (Ingrid). Protagoniste della pellicola Leone d’Oro all’81° Mostra del Cinema di Venezia sono Martha, inviata di guerra del New York Times, sopravvissuta a conflitti personali – non è stata una madre per la figlia Michelle – e sul campo di battaglia, che ora vuole essere libera di morire con dignità dopo la diagnosi di un tumore inguaribile, e Ingrid, scrittrice di successo che nell’ultimo libro racconta la sua incapacità di capire e accettare la morte. E proprio a lei l’amica, che non vuole morire sola, chiede di stare nella stanza accanto fino a quando abbandonerà la “festa”, prendendo una pillola trovata nel dark web. Il segnale sarà la porta chiusa, un passaggio, verso cosa non si sa – parlano molto schiettamente di tutto, non di fede -, e Ingrid sta sulla soglia, ascolta e si prende cura di lei senza giudicare, ma rappresentando una “coscienza” troppo debole per riuscire a dissuaderla.
Per la figlia è una sua scelta, e nulla è capace di trattenere Martha, che vuole evitare l’umiliante sofferenza dell’agonia e si trasferisce con Ingrid in una villa immersa nel bosco. Ispirato al romanzo “Attraverso la vita” (Garzanti, 2022) della scrittrice newyorkese Sigrid Nunez, il film procede con dialoghi fittissimi, colori vivaci nei vestiti, tipici del cinema di Almodóvar, ma con cambi repentini di scena che lo rendono più simile ad un copione teatrale e, pur non cadendo nel melodramma, regala poche emozioni. Il poliziotto che interroga un’impassibile Ingrid sospetta che sia complice del reato e da uomo di fede non può accettare l’eutanasia e chi aiuta a praticarla, ma il suo punto di vista è liquidato in fretta.
Il desiderio di pace e la critica di Martha sono condivisibili – “Ci hanno insegnato a vedere il cancro come una battaglia: se ce la fai sei un eroe, se perdi non hai lottato abbastanza” -, non la volontà di togliersi la vita a cui porta, e il comprensibile bisogno di non essere sola non è sufficiente a spingere la donna a svelare alla figlia la verità sul padre. Il film è percorso da un sottofondo di archi – musiche di Alberto Iglesias – e da citazioni letterarie, artistiche, cinematografiche, simili ad un dire addio alla bellezza e al talento, proprio e altrui, che alimenta la vita, e il regista inserisce un motivo ricorrente: le parole finali di “Gente di Dublino” di James Joyce dette da Martha all’inizio ritornano in vari momenti e alla fine sono ripetute da Ingrid, raggiunta da Michelle nella villa, sotto un cielo che si riempie di fiocchi di neve ma vuoto, senza un dio, senza calore, fiducia, dubbi.