Proposizioni sinodali, l’occasione da non perdere

La parola d’ordine è rinnovamento, ma non è ancora evidente quale sarà la strada. Forse un documento vergato di indicazioni concrete ampiamente emendate (rispetto al testo posto in origine in dibattito), da consegnare ai vescovi quando si ritroveranno nel prossimo maggio. O, forse, una nuova piattaforma con ulteriori suggerimenti, bisognosi di nuovo approfondimento condiviso. Di certo, la seconda Assemblea sinodale della Chiesa italiana che stiamo vivendo in Vaticano fino a giovedì 3 aprile, a conclusione di quattro anni di confronto fraterno nelle Diocesi, si sta rivelando, al pari del primo appuntamento assembleare di novembre in San Paolo fuori le Mura, un momento di confronto autentico. Vero. Senza infingimenti. Tra i circa mille delegati dalle Diocesi (tra cui cinque trentini guidati dal vescovo Lauro) e membri invitati, metà sono laici. Più donne che uomini per “bilanciare” i 7 cardinali, 168 vescovi, 252 preti, 34 fra religiosi e religiose, 17 diaconi (numeri ufficiali CEI).

Per loro, laiche e laici, trovarsi in gruppo con lo stesso diritto di parola del versante clericale non è un fatto per nulla scontato, dopo la “prima” autunnale. Fosse anche solo per questo, il Cammino sinodale ha fatto segnare un netto cambio di passo. Seppure non come la maggior parte dei “sinodali” si sarebbe, almeno fin qui, aspettata. Ma a confermare che qualcosa si sta comunque oliando nei meccanismi paludati dell’ingranaggio ecclesiale, ci ha pensato la ricchezza del confronto assembleare in Aula Paolo VI, dove l’invocazione allo Spirito Santo e in generale un clima ad alto tasso di spiritualità fa da premessa alle relazioni e al dibattito sul documento base dal titolo biblico così significativo: “Perché la gioia sia piena”.

Nelle sessioni comuni all’ombra del Cupolone si respirano, senza soluzione di continuità, libertà (fatto salvo il tempo massimo di due minuti ad intervento) e franchezza, per le quali proprio il Referente sinodale trentino don Celestino Riz, in un apprezzato passaggio in Aula a conclusione della seconda mattinata, scomoda il termine biblico “parresia”. Sostantivo che indica quella sincerità a volte spiazzante – e spesso ben lontana dagli ambienti ecclesiali – che può produrre senso di ulteriore fatica in chi è chiamato a rimodellare le proposte nazionali. Ma che è segno, sempre, di straordinario valore aggiunto.

A volte può capitare – ci tiene a rammentare alla presidenza CEI e ai delegati il fassano don Celestino, multiparroco nelle Giudicarie, evocando le sue arrampicate in montagna – che l’ascesa riservi ostacoli inattesi, in cui sembra di rimanere impantanati. In tal caso vi è solo una strada: tornare sui propri passi e rivedere il percorso, ma senza perdere di vista, per quanto possibile, la meta.

Mentre il settimanale diocesano va in stampa, ai delegati trentini non è ancora noto il bagaglio finale con cui torneranno a casa da questa Assemblea in salsa giubilare. La speranza ovviamente è che la Chiesa italiana, spronata al Cammino sinodale già dieci anni fa a Firenze da papa Francesco, non si volti indietro, quasi pentendosi delle aperture profetiche abbozzate in questi intensi quattro anni di narrazione di sé e discernimento. Ci sono tutte le condizioni per attuare un profondo, forse radicale, cambiamento nell’essere testimoni dell’unica speranza autentica, riflessa nel volto di Gesù di Nazareth. Non ci si attardi prima dell’ultimo miglio a rimirare se stessi, abbozzando operazioni di facciata. Ogni paura del nuovo è un’occasione persa. Ma questa potrebbe essere l’ultima.

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