Sicuri di vederci bene?

Prima lettura: 1 Samuele 16,1b.4.6-7.10-13;

Seconda lettura: Efesini 5,8 – 14; 12-19;

Vangelo: Giovanni 9,1-41

Partendo da Milano, al tempo del Cardinale Martini, s’è diffusa in molte città l’iniziativa denominata “Cattedra del confronto”. S’incontrano personalità dell’ambito credente e di quello non credente allo scopo dialogare in pubblico su argomenti importanti (come la vita e la morte, il futuro di tutti e di ciascuno, i diritti umani, ecc.). Non si ha paura di porre domande scomode e neanche la pretesa di trovare risposte veloci che chiudano la bocca all’interlocutore. Ovviamente gli interessati sono i veri credenti e gli atei onesti. Perché, come tutti sanno, esistono anche falsi credenti e atei disonesti.

I falsi credenti fingono di credere in Dio, ma in realtà credono solo in se stessi, nelle loro idee, nei loro piccoli o grandi progetti, tutti orientati alla soddisfazione di personali interessi. Dio, per loro, è un elemento superfluo da tirare in ballo unicamente in certe occasioni. Gli atei disonesti, dal canto loro, sono quelli che dicono di non credere in Dio, ma poi sbavano per il danaro, o per il potere (che con il denaro va a braccetto), oppure nutrono incondizionata fiducia nella scienza o nella tecnica come se si trattasse di un dio… Gli atei disonesti, infatti, non sono molto diversi dai falsi credenti; solo che s’incrociano (o vanno addirittura a braccetto) senza mai incontrarsi: non hanno niente di vitale da dirsi. I veri credenti e gli atei onesti invece hanno coscienza di essere diversi, ma il confine tra loro è molto sottile: sanno di condividere molte cose. Il dubbio soprattutto. I veri credenti sanno dubitare, non hanno paura del dubbio; ciò che credono non è mai un punto di arrivo definitivo che li lascia tranquilli o li addormenta addirittura: è sempre un nuovo punto da cui partire per cercare ancora. Anche gli atei onesti sperimentano il dubbio e sentono l’ansia di andare aldilà delle opinioni e delle idee che si son fatti fino a quel momento. Il dubbio, insomma, questa inquietudine interiore che fa camminare ancora, accomuna gli uni e gli altri. Altra cosa che condividono è la coscienza della responsabilità verso questo mondo, fatto di problemi e di incognite relative al suo futuro: i falsi credenti e gli atei disonesti sparano sentenze facili (che non risolvono nulla) e poi fanno come gli struzzi: mettono la testa sotto la sabbia per non vedere, per non pensare… I veri credenti e gli atei onesti invece non si squagliano di fronte agli eventi, per quanto problematici possano essere; provano apprensione, forse anche timore, ma accettano la fatica di ragionare col cervello e con il cuore… Insomma, non è positivo che i veri credenti e gli atei onesti possano condividere la responsabilità verso questo mondo e il suo futuro?

E cosa c’entra tutto questo con il vangelo della prossima domenica che riferisce la guarigione di un giovane, cieco dalla nascita, da parte di Gesù? Dalla nascita, si noti bene: ciò vuol dire che non ha mai visto la luce. Non potrebbe simboleggiare l’umanità del nostro tempo, disorientata, immersa in una realtà caotica, alla quale finisce per rassegnarsi senza possibilità di alternativa? Noi cristiani sappiamo che a questa umanità Dio guarda con profonda comprensione. Gesù – l’inviato di Dio – le viene incontro, si sporca le mani con il fango per ricrearla nuova, e le dice: “Va’ a lavarti alla piscina di Siloe”. Siloe vuol dire appunto “inviato”. Sì, c’è buio, disorientamento, confusione… ma Dio non se ne sta con le mani in mano; offre una via d’uscita: l’Inviato, Gesù.

Perché mai è stata così laboriosa la guarigione di quel cieco dalla nascita? Perché ricorrere alla saliva, al fango, e poi mandarlo – barcollante – a lavarsi alla piscina di Siloe? La via che porta a Cristo non è una comoda autostrada a più corsie: è un sentiero ripido e stretto, un cammino lungo e punteggiato da ostacoli. Il bisogno di vederci, di vederci di più e meglio, non può arrestarsi a desiderio epidermico che prima o poi scompare. Recarsi alla piscina dell’Inviato significa riconoscere in Gesù, un po’ alla volta, il proprio Maestro, il Salvatore cui legarsi con vincolo di fiducia indissolubile. Ma non si arriva a una tale fiducia senza affrontare delle prove.

La fede non è un pacifico possesso: è un’esperienza che implica una continua ricerca, anche faticosa, e ognuno la deve affrontare personalmente. Smettiamo di pensare e di far credere che – avendo la fede – abbiamo perciò stesso le risposte, chiare e indiscutibili, per tutte le occasioni. No, la nostra condizione di credenti è quella di chi cammina, e via via che cammina – anche tra conflitti e contrasti – la sua vita si trasfigura, si illumina e prende senso. Ma solo se si cammina. “Un tempo eravate tenebra – ci ricorda san Paolo (2° lettura) – ora siete luce nel Signore”. Non è ancora la luce piena, totale, sfolgorante… ma è sufficiente per vedere “ciò che è gradito al Signore”. Poveri noi se quel po’ di luce che abbiamo ricevuto non la utilizzassimo per questo. Ma, oltre che poveri, saremmo anche miserabili se ci illudessimo di non aver più bisogno di vederci meglio, di camminare ancora. In quel cieco dalla nascita che si alza e va sulla parola di Gesù, è opportuno che ciascuno veda se stesso. È questo, del resto, il segreto per comprendere il vangelo.

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