Miti e perdenti. Quindi: vincitori.

I lettura: Isaia 50,4-7;

II lettura: Filippesi 2,6-11;

Vangelo: Matteo 26,14 – 27,66

È opinione comune che con i rami d’ulivo si dà inizio alla celebrazione della Pasqua. Molti potrebbero essere i messaggi che la Liturgia di questa Domenica delle Palme offre alla nostra considerazione; la stessa lunga lettura del Vangelo della Passione e morte di Gesù, se la si ascolta con fede e con amore, vale più di tutti i commenti e le omelie che si potrebbero fare.

Forse quel ramo d’ulivo è l’immagine eloquente che riassume un po’ tutto. Lo si reca in mano con venerazione e, tornati a casa, non lo si getta nel cassonetto della spazzatura, ma in un posto ben visibile (magari accanto a un’immagine del Crocifisso). Un ramo d’ulivo non è una spada o, per dirla in termini più attuali, una pistola o un kalashnikov… Non è nemmeno una sferza o un bastone per colpire qualcuno… È invece simbolo di mitezza, di convergenza e convivenza armoniosa (è un caso che l’ulivo cresca in tutti i paesi attorno al Mediterraneo, nessuno escluso?). È il logo di chi non si stanca mai di cercare e promuovere la pace (tant’è vero che non perde la sua chioma d’inverno; anzi, secondo certuni è una pianta che non muore mai: forse non è vero, ma certo ha una durata capace di sfidare i secoli). Mitezza insomma, convivenza armoniosa. E pace.

Non per nulla dall’ulivo si trae l’olio: quell’elemento naturale che dà sostanza ai cibi, lenisce le ferite, permette agli ingranaggi di funzionare senza quei cigolii che sembrano lamenti…

Recare tra le mani un ramoscello d’ulivo e metterlo al posto d’onore in casa è come dire: noi siamo per la mitezza, non per la violenza; siamo persone di pace, non arroganti o litigiose, perché siamo discepoli di un Messia mite e umile di cuore che ha fatto il suo ingresso trionfale a Gerusalemme su di un asino, mentre la gente agitava attorno a lui rami di ulivo in segno di benvenuto. Sarebbe stato un controsenso agitare rovi o rami spinosi, o accoglierlo con botti, spari o deflagrazione di bombe. Gesù è un Maestro, un Messia, mite e umile di cuore. Oh, non che questo significhi timidezza o debolezza innata: tanto è mite e umile, altrettanto è forte: forte “dentro”, nell’intimo, di fronte alle prove e alle vicissitudini della vita (chi è forte solo “fuori”, non di rado è semplicemente arrogante e violento). “Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino” (vangelo). Ci vuole più forza nell’essere miti che nell’essere arroganti o violenti. L’ultima parola che Gesù rivolge a Giuda è “amico”.

“Ho presentato il mio dorso ai flagellatori (si legge nella prima lettura di questa Domenica, ed è come se fosse Gesù stesso a parlare), le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Certo, chi è mite e forte nell’intimo, spesso sembra perdente, condannato a fare una brutta fine. “Sia crocifisso!” grida la folla al procuratore romano che esita a prendere una decisione. La passione di Gesù (che a ogni Domenica delle Palme si proclama) finisce con uno scenario di sconfitta: “Se sei Figlio di Dio, salva te stesso – gridano i passanti. Scendi dalla croce!”. Ma non scende affatto, anche se potrebbe farlo. I violenti e gli arroganti hanno buoni motivi per cantare vittoria. Quel sepolcro chiuso e sigillato da una pietra, nel quale è deposto il Cristo morto, sembra l’icona di una storia finita male. Una tra le tante, in apparenza. Come non pensare a certe tragedie – individuali o collettive – del nostro tempo? Alle donne vittime di inaudite violenze? Agli innocenti avvelenati e deturpati dalle armi chimiche, o massacrati dalle mitragliatrici o dagli ordigni bellici più sofisticati? Come non ricordare le scene dei fuggiaschi inermi venduti al miglior offerente, o annegati in quel Mediterrraneo – detto anche mare nostrum, sulle cui terre adiacenti prosperano gli ulivi?

Sì, potrà suonare agli orecchi di molti come un annuncio consolatorio a buon mercato, ma il vangelo della Passione di Cristo proclama che il vincitore sarà proprio lui, il perdente, perché questo è solo l’inizio della Pasqua. “Non c’era più posto tra i vincitori, perciò ci siamo messi tra i perdenti”: questa, che per Bertold Brecht era un’amara constatazione, per noi cristiani è una certezza: l’ultima parola non sarà dell’odio o della cattiveria umana, ma dell’amore, che si esprime nel perdono, nell’accoglienza, nella mitezza forte e coraggiosa. E perciò il traguardo è risurrezione, cioè quell’epilogo inatteso che solo Dio sa scrivere, dopo che gli uomini hanno già posto la parola “Fine”. Il vangelo della Passione e morte del Signore non è solo un racconto commovente che si fa ascoltare con devozione. È una profezia, una chiave di lettura per capire in profondità certe esperienze della vita o drammi della storia, oltre la cronaca che si limita all’evidenza e dopo ventiquattr’ore è già nel dimenticatoio.

Ecco il bel messaggio racchiuso in quel ramoscello d’ulivo che la Domenica delle Palme rechiamo tra le mani e portiamo nelle nostre case. Che questo messaggio si radichi nel cuore e di esso possiamo essere buoni testimoni.

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