Quella pervasiva resistenza alla luce

Annunciato, atteso, uscito in sala giovedì 18 febbraio. Il caso Spotlight diretto da Tom McCarthy (L’ospite inatteso, 2007) conferma le anticipazioni della Mostra del Cinema di Venezia dove è stato presentato fuori concorso, il 3 settembre scorso: un film teso e asciutto condotto sul modello di Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula (1976), sul caso Watergate. Stesso genere di giornalismo d'inchiesta e di squadra, 40 anni dopo. Un po' meno adrenalinico, ma sempre incalzante e veloce, che fatichi a riconoscere i pezzi in gioco – il procuratore, gli avvocati delle due parti, e soprattutto i numeri: dei cattolici di Boston, dei preti pedofili, delle vittime di un anno o forse di un decennio…

Un giornalismo che nonostante la crisi della carta stampata – qui siamo al Boston Globe nel fatidico 2001 – può ancora permettersi di tenere una squadra a lavorare d'inchiesta un mese oppure un anno su di un caso, tutto il tempo che serve, e con le incognite dello scavo che può anche non approdare a nulla. La squadra Spotlight, però, rischia di non vedere il Caso che chiede di essere portato alla luce da anni, a cui finora sono stati dedicati solo trafiletti in cronaca locale e su cui scoprirà di avere seppelliti in archivio parte degli elementi utili. Ci vuole un direttore nuovo, venuto da fuori ed estraneo all'ambiente cattolico di Boston – Marty Baron (Liev Schreiber nel film) arriva da Miami ed è ebreo – per spingerli nella direzione giusta e trovare il coraggio di puntare il riflettore (lo spotlight del titolo originale) sulla chiesa cattolica e sul potente cardinale Law. A detta del film più del 50% dei lettori del Boston è cattolico, e lo stesso team giornalistico esce da quell'ambiente, incluso il capo dello staff, Walter Robinson (Michael Keaton).

La resistenza a fare luce, è questa la vera sostanza del film, una resistenza diffusa e condivisa in modo non consapevole, che addormenta le coscienze dei singoli e della società, di chierici e laici. Che permette ai vertici gerarchici della Chiesa di fare patti separati con l'Autorità giudiziaria e nascondere sistematicamente i crimini dei propri presbiteri contro i bambini. Ma soprattutto le permette di non rendersi conto del male che le cresce dentro, della natura e delle proporzioni di questo male. Altrimenti come potrebbe pensare di spostare su nuove parrocchie i preti colpevoli di abusi sessuali? E perché il Cardinale avrebbe tolto i finanziamenti all'inchiesta ecclesiale che intendeva fare luce sul problema ancora a fine anni '80?

Una resistenza che pesa come la macina da mulino che dovrebbe mettersi al collo chi scandalizza un piccolo.

La fine del film coincide con l'uscita del primo articolo di una lunga serie che porterà il Pulitzer ai giornalisti del Globe, due anni dopo, e alle dimissioni forzate del card. Law. Sul terreno, oltre alle vittime delle molestie, resta anche la fiducia nella Chiesa. Nei giornalisti, come Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) che accompagnava la nonna a messa e ora non più; come Mike Rezendes (Mark Ruffalo) che aveva lasciato come tanti ma conservava una remota speranza di ritornare e ora non più. Così negli spettatori, colpiti dalla materia incandescente del film e affondati dall'epigrafe che informa di un altro “spostamento”, quello del card. Law dall'Arcidiocesi di Boston alla Basilica Vaticana di S. Maria Maggiore.

Un film potentemente quaresimale, che mette a tema il quesito evangelico: come può un cieco condurre un altro cieco?

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