Ci si interroga sulla stabilità della politica italiana in un quadro europeo piuttosto mosso. Persino la corazzata politica tedesca ha stupito il mondo con l’inedita esibizione di un gruppo di franchi tiratori che hanno impedito la nomina al primo turno del cancelliere Merz della CDU alla testa di una coalizione con la SPD, coalizione che sulla carta disponeva di una maggioranza sicura. La situazione traballante della politica francese è nota, anche in Spagna il governo Sanchez incontra difficoltà. Meloni vanta una performance economica di buon livello, pur senza essere quella meraviglia propagandata dai suoi corifei, un contesto sociale privo di tensioni gravi (i referendum promossi dalla CGIL non scaldano il Paese), una presenza internazionale di tutto rispetto.
Questo se si vuol guardare la situazione senza gli occhiali deformanti delle retoriche di fazione. Tuttavia forse proprio per questo si sta facendo strada nella cerchia dei fedeli della nostra premier la domanda se non valga la pena di consolidare questo buon momento in vista di future situazioni che potrebbero metterlo alla prova. Formalmente la legislatura termina nell’autunno 2027, ma potrebbe essere un momento problematico.
Lasciamo ovviamente da parte l’incognita di come evolverà la situazione internazionale, perché in questo momento ci sembra difficile fare previsioni. Se gli eventi precipitassero, cosa purtroppo possibile, tutti saranno costretti ad agire sotto il loro incalzare e il quadro di emergenza costringerà a cambiare più di un’ottica consolidata. Prendiamo invece in considerazione alcune scadenze che stanno alla base delle considerazioni sulla possibilità e/o opportunità di anticipare di un poco la scadenza della legislatura.
Il primo problema che più di un osservatore sottolinea è la non buona collocazione delle elezioni nell’autunno 2027. Si dovrebbe votare con la pressione della legge finanziaria da fare subito dopo la chiusura delle urne e in un contesto che vedrà la fine del supporto dei finanziamenti europei al PNRR e di conseguenza l’inizio del pagamento dei prestiti contratti. Come si può capire, non sono le condizioni migliori in cui il governo potrebbe fare una campagna elettorale vantando prospettive economiche di espansione (e ci sarà da tenere conto degli investimenti da fare in materia di difesa: un impegno che non potrà essere ulteriormente eluso). Il secondo problema è se si vuole più di prospettiva, ma la politica in questo campo è lungimirante: nel 2029 termina il secondo settennato di Mattarella e dunque ci sarà da votare per il nuovo inquilino del Quirinale. Il centrodestra ci punta decisamente, perché lo considera la consacrazione del cambio di sistema, un’operazione che non riuscì neppure a Berlusconi. Per giocare quella partita impegnativa ha bisogno non solo di tenere rigidamente insieme la sua coalizione (la volta scorsa le strambate di Salvini hanno compromesso una soluzione più favorevole al governo Meloni), ma di raccogliere una maggioranza parlamentare assolutamente blindata. A questo fine si sta avviando una operazione di ennesima riforma della legge elettorale che contempli il sempre agognato premio di maggioranza per la coalizione vincente.
Si tratta per ora di un progetto avvolto nelle nebbie delle anticipazioni, senza ancora un testo su cui si possa ragionare, ma che sembra orientato intorno a due pilastri: 1) codificare l’indicazione del candidato premier da parte delle coalizioni in modo da farlo eleggere quasi direttamente dal voto popolare; 2) evitare che la designazione comporti il raggiungimento del quorum del 50%+1 dei voti e che in caso ciò non avvenga si vada al ballottaggio. Col primo pilastro si inchioderebbe il destra-centro a riconoscere la guida indiscutibile di Giorgia Meloni, visto che non solo non esistono alternative, ma che la Lega non risorge dalle attuali modeste performance e non è dunque in grado di minarne la leadership. Se riuscisse a far passare una legge elettorale per cui all’elezione del premier bastasse il 40-42% dei voti e a cui si aggiungesse il primo di maggioranza del 55% dei seggi (possibile dal punto di vista della pronuncia della Consulta, sebbene stiracchiandola un poco), la destra centro ritiene di avere facilità di vittoria contro un fronte di opposizioni sfilacciato e privo di leadership unificanti e di peso.
Siamo qui però in un terreno scivoloso, non solo perché le opposizioni potrebbero anche trovare un po’ di capacità di resistenza, ma anche perché dubitiamo che nella stessa maggioranza ci sia compattezza nel consegnarsi in questo modo nelle mani di Giorgia Meloni. Intanto però un po’ di manovre sono iniziate e visti i tempi che corrono non ci sembra possano portare risultati propizi.