Senza memoria non c’è antidoto alla “lussuria bellica”

Il quartiere della Portela a Trento dopo il bombardamento alleato del 2 settembre 1943

Può la memoria, la consapevolezza di ciò che abbiamo già visto e vissuto, evitare di commettere gli stessi errori? Se così fosse, probabilmente le guerre non ci sarebbero più. Perché nulla è più terribile della guerra. E non c’è niente di più inutile. Ma la memoria non ci soccorre, anzi sembriamo tutti impegnati in una rimozione che cerca di trasformarci tutti, bene o male, in tifosi dell’una e dell’altra parte. Cosa – leggendo i giornali di questi giorni – che sta succedendo anche per il nuovo conflitto tra Israele e Iran.

Le notizie non sono mai neutre: hanno più spazio gli effetti dei missili su Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme che non quelli che colpiscono le abitazioni di Teheran; le corrispondenze enfatizzano i risultati militari, gli obiettivi raggiunti, non certo gli effetti devastanti per chi – spesso popolazioni civili – le subisce; le analisi degli “esperti” nei salotti televisivi hanno la capacità di rendere tutto così semplice, così facile, persino scontato. La guerra trasformata in una grande partita a risiko dove vince chi è più abile (e più forte), senza mai chiedersi se, con un minimo di buona volontà (e saggezza) quella guerra la si poteva evitare. I missili, i droni, i botti, le scie luminose nei cieli, le fiamme nella notte, tutto diventa una sorta di videogioco. Si apre un nuovo file e quello precedente (Gaza, Hamas, gli ostaggi, la folle determinazione nel massacrare un’intera popolazione) viene archiviato.

Teheran, 13 giugno 2025: un edificio residenziale colpito dall’attacco israeliano (foto Afp/Sir)
Bat Yam, a sud di Tel Aviv, 15 giugno 2025: soccorritori israeliani cercano dispersi dopo l’attacco missilistico iraniano (foto Ansa/Sir).

La televisione, però, a volte regala connessioni che sembrano essere fatte apposta per sorprendere. Cosa che le connessioni digitali non riescono più a fare. Domenica, tarda sera: le reti “all news” (quelle che trasmettono notizie 24 ore al giorno) sono tutte impegnate a raccontare gli attacchi israeliani sull’Iran e a dare conto dell’ondata di missili lanciati da Teheran verso Tel Aviv. Le notizie, in questi casi, sono assai scarne e si cerca di “tenere” il pubblico con narrazioni e suggestioni spesso azzardate, quasi sempre ripetitive.

Capita, allora, di cambiar canale con uno zapping incerto, stanco, a caso. Succede che le immagini di Teheran, di Haifa, di Beirut e di Gaza – le distruzioni, i morti, lo sguardo allucinato dei sopravvissuti – cedano di colpo il posto ad immagini di distruzioni raccontate in bianco e nero, luoghi che ben conosci della tua città, il racconto fatto da facce conosciute, alcuni addirittura di amici di cui però non conoscevi la storia di quando erano bambini e che per puro caso sono riusciti a salvarsi da un violento bombardamento.

“Occhi di guerra”, un documentario di Maurizio Panizza e Federico Maraner, trasmesso in replica domenica sera dal canale tv di “History Lab”, racconta il 2 settembre 1943. I bambini di allora, oggi, con l’inconfondibile cadenza dialettale dei trentini, ricordano cosa successe quel giorno. La storia non è più qualcosa di lontano e le bombe non sono più qualcosa che riguarda gli altri. I morti, quel giorno, furono duecento (manca la cifra esatta) e ad essere colpite furono una struttura sanitaria (la “Cassa Malati”) proprio accanto alla Basilica di Santa Maria (che sulla fiancata porta ancora il segno delle schegge), le case di via Prepositura, una trattoria alla “Portela”. La vicinanza della stazione ferroviaria, lungo l’asse del Brennero, trasformò quel rione (tra i più antichi della città, proprio a ridosso della Torre Vanga) nel bersaglio di chi dal cielo difficilmente può distinguere tra infrastrutture e vite umane. Successe allora, succede sempre in guerra.

Quella pagina di storia non è mai stata insegnata nelle scuole trentine, una sorta di rimozione collettiva. Non ci fu soltanto il bombardamento del 2 settembre, le incursioni aeree furono un’ottantina. Non solo Trento, ma anche Rovereto, Lavis, Ala, Calliano. Dal settembre 1943 alla fine della guerra, il suono delle sirene antiaereo divenne una triste compagnia quotidiana, anche più volte al giorno. Il 13 maggio 1944, un pesante bombardamento nella zona del quartiere di San Martino provocò altre 130 vittime. Complessivamente, i bombardamenti alleati causarono la morte di quasi 400 persone.

Forse varrebbe la pena ricordare ciò che le due guerre mondiali hanno provocato in Trentino: distruzione, sofferenza, morti, desolazione, povertà. Ci potrebbe far comprendere che la guerra – anche quella più lontana – non è mai una partita di calcio per la quale si può fare il tifo sugli spalti. La memoria deve essere il faro di una coscienza attiva, deve essere monito rispetto alla tendenza sempre più forte di negare, sempre, le ragioni dell’altro. “L’alterità, lungi dall’essere accolta, viene sempre più percepita come una minaccia”, scrive Mauro Magatti su Avvenire. “Nella sfera pubblica, le posizioni si polarizzano, il linguaggio si fa bellico, le categorie si irrigidiscono. Le differenze non sono più occasione di confronto, ma trincee da difendere. E a peggiorare le cose ci sono anche le piattaforme digitali che favoriscono nuove forme di tribalismo e chiusura”.

La memoria come antidoto alla “lussuria bellica”, come l’ha definita a Gerusalemme il Custode di Terra Santa fra Francesco Patton nell’omelia del giorno di Sant’Antonio, poche ore dopo l’attacco di Israele all’Iran (vedi pag. 7, ndr). “In questo momento siamo di nuovo in pericolo. Sperimentiamo il silenzio del mondo, sperimentiamo l’inefficacia della diplomazia, sperimentiamo l’insufficienza della politica, sperimentiamo la parzialità della comunicazione, sperimentiamo la distorsione ideologica della verità”. (82.)

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