La Parola, l’Angelus e i media: verso un nuovo modo di pregare

Mons. Lauro Tisi celebra nella cattedrale “a porte chiuse”. Foto Gianni Zotta

Lo spunto

Dal 10 marzo è chiusa tutta l’Italia, ma mi domando se è giusto che siano state sospese anche le Messe, che si svolgono spesso in ambienti ampi e consentono distanze adeguate fra i fedeli. Domenica, quando ci siamo recati a Messa abbiamo invece già trovato la chiesa vuota. Avevamo discusso insieme, la sera prima, se era il caso di andare alla Messa o non andarci (per prudenza ecc ….) poi abbiamo deciso di sì, per tante ragioni: perché nella chiesa ritenevamo ci fossero spazi adeguato per la prevenzione, perché non basta la scienza a superare l’emergenza, perché andare a Messa testimonia non solo fede, ma trasmette speranza di futuro, di quel riscatto sempre più necessario anche in una dimensione civile. E poi perché risuonava dentro di noi insistente, anche se non forse del tutto pertinente, il gesto francescano dell’abbraccio al lebbroso e degli stessi lebbrosi e guariti da Gesù.
Certo l’influenza da coronavirus non è la lebbra, e neppure la peste manzoniana, ma ha pur bisogno, per essere affrontata, di un recupero di comportamenti globali risanati. Invece, giunti alla chiesa, prima ancora di leggere i cartelli affissi alle porte siamo stati informati della sospensione delle Messe dal parroco, che attendeva fuori per dare personalmente l’annuncio a chi stava entrando. Di questa attenzione e pastoralità lo ringraziamo, anche se la misura, decisa in alto, ci è sembrata un po’ eccessiva, ma insomma … E’ vero che si può sempre dire una preghiera da soli in casa, ma viene a mancare quel senso di comunità che dà poi forza alla quotidianità. Per parte nostra siamo andati a dare un saluto ai nostri cari al cimitero. Diranno anche loro una preghiera per noi. Non c’è solo lo “streaming” sul maxischermo con il Papa, non ci sono solo i “social” per la fede al tempo del virus (viene alla mente il bel romanzo di Gabriel Garcia Marquez “L’amore ai tempi del colera”) c’è anche la “comunione dei santi”, come ripetiamo nel Credo, o no?

G. C. Trento

Più che la sospensione delle Messe sono forse risultati eccessivi i commenti che essa ha suscitato, e i toni spesso trionfalistici con cui è stata salutata la sostituzione dell’antico sacrificio che fa memoria dell’Ultima Cena con la possibilità di seguire ormai tutte le funzioni sugli schermi dei computer, o con gli “app” dei telefonini. Quasi si aprisse una finestra su una nuova, finalmente moderna, religiosità!
Per non dire del clamore suscitato dalla decisione papale di rinunciare ad affacciarsi in piazza San Pietro e di sostituire l’Angelus dalla finestra con la trasmissione del saluto mariano in “streaming” … così che anche la cattolicità possa adeguarsi ai telepredicatori che piacciono a Trump . E adesso, pare, potemmo avere la Messa papale ogni giorno in diretta, così si potrà fare a meno di tutte le altre messe, supplendo non solo al virus ma alla carenza di sacerdoti. Mamma mia!
E’ ben vero che le vie del Signore sono infinite, ma viene da chiedersi a chi giova una chiesa che dalle pietre vive passa ai bip virtuali. E’ quindi forse doveroso moderare gli entusiasmi e riflettere sul fatto che gli scribi, se nei secoli sono passati dallo stilo al microchip, tali sempre restano nel giudizio evangelico, e che se sembra prudente – in tempi di emergenza – evitare assembramenti perniciosi alla salute, non sembra altrettanto giustificato innalzare inni all’affermarsi di una religiosità on-line suscettibile di mettere in secondo piano la Persona – il prete celebrante – e la Parola – il Verbo – rispetto alle ombre evanescenti di un “display”.
Lasciamo, se proprio lo vogliamo, che sia l’ “intelligenza artificiale” informatica a guidare le nostre automobili, ma non una “religiosità artificiale” mediatica, a guidare le nostre coscienze. Dopo tutto il cristianesimo è una persona, Cristo, non una filosofia o una teologia, dopo tutto la Messa è una “incarnazione” reale (il pane e il vino che si trasformano nel corpo e nel sangue del Signore), non una rappresentazione simbolica. Il Verbo si fa carne (“et Verbum caro factum est”) non si diffonde solamente nell’etere. Merita riflettere su questi punti quando ci si entusiasma alle “nuove” messe su whatsapp invece che in chiesa.
Ogni espressione umana va a gloria di Dio, “ad maiorem Dei gloriam”, certo, ma occorre fare attenzione ai mezzi da usare. Non a caso Nostro Signore non volle scrivere una riga di ciò che diceva e si affidò alla parola, sua e degli apostoli che poi l’avrebbero “tradotta”, con la loro presenza diretta, nella storia.
E non a caso, due millenni più tardi, il sociologo Marshall McLuhan avrebbe ribadito che il vero ”messaggio” , il suo vero contenuto nel villaggio globale, non sta tanto in ciò che si trasmette, ma nel mezzo che si usa per trasmetterlo: “The medium is the message”.
Non è la stessa cosa udire la medesima parola da una voce diretta, pronunciata dall’ uomo, dalla donna, dal bambino che ti stanno davanti, o ascoltarla registrata, oppure trasmessa sullo schermo via Skype (che non a caso fa subito venir voglia di premere “off” e spegnerlo). Allora, in casi di emergenza ben vengano le celebrazioni on-line, ma tenendo presente che sono succedanei, misure tampone, sassolini forse utili per non smarrire il sentiero nelle selve oscure, come Pollicino nella fiaba, ma non pietre vive su cui costruire se stessi e un futuro.
L’esperienza on-line di queste domeniche merita peraltro di essere approfondita sotto due aspetti. Il primo riguarda la funzione religiosa come testimonianza corale, liturgica, non solo privata , componente non marginale della fede, come insegnano i martiri.
La seconda riguarda i rapporti fra la dimensione personale della preghiera e il senso più esteso di comunità – di fratellanza – che deve suscitare. Ci sarà da approfondire, perché la preghiera ha una sua dimensione civile, non solo personale, ma l’Angelus di papa Francesco in San Pietro, l’altra domenica, alcune indicazioni precise le ha date. L’Angelus è nato come preghiera privata. Al suono delle campane – che unificava tutte le lontananze – il contadino deponeva la zappa e recitava l’Ave Maria. Ma in San Pietro papa Francesco ha reso questa testimonianza da personale a globale. Ha tenuto conto della situazione italiana scossa dal virus (non s’è affacciato per non provocare assembramenti che avrebbero potuto diffonderlo) ma s’è poi richiamato alla situazione ben più tragica di paesi come la Siria, dove piovono bombe. S’è lasciato “diffondere” in “streaming”, ma poi s’è affacciato concretamente, visivamente alla finestra, quasi a dire: “Io sono qui, dove era Pietro, non altrove, sono una persona, un prete, non un’immagine”. Forse la proposta di riscoprire un modo di pregare, privato e pubblico.

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