La voce di Hind Rajab risuona al Festival del cinema di Venezia

Come lo scorso anno per “La stanza accanto” di Pedro Almodovar anche alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, conclusasi la scorsa settimana, il Leone d’oro sembrava essere in cassaforte. Questa volta da “The voice of Hind Rajab” della tunisina Kaouther Ben Hania (che si è invece aggiudicato il Leone d’argento – Gran premio della giuria). Sia perché cinematograficamente impeccabile, sia perché con al centro l’attualità, la guerra a Gaza con il genocidio di un intero popolo, quello palestinese.

La finzione abbraccia la realtà, con quella voce fuori campo della bambina, Hind Rajab, intrappolata in una macchina durante un attacco dell’esercito israeliano, che morirà, schiacciata da decisioni prese da un primo ministro, Benjamin Netanyahu, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità (insieme ai capi di Hamas) dalla Corte penale dell’Aja che ha spiccato nei suoi confronti un mandato d’arresto internazionale. Ma non è stato così.

La giuria presieduta dal regista americano Alexander Payne – e di cui faceva parte anche l’altoatesina Maura Delpero, Leone d’argento lo scorso anno con “Vermiglio” – ha preferito “Father mother sister brother” di Jim Jarmusch. Il che va purtroppo e paradossalmente a sminuire il valore di uno dei più significativi e importanti autori del cinema indipendente americano che con questo film non tocca le vette di altri suoi lavori, per quanto sempre originale e in certi momenti spiazzante. Quasi gli fosse stato consegnato un Leone alla carriera. Il tema dei rapporti familiari, spesso irrisolti, è di quelli che fanno parte della nostra contemporaneità e Jarmusch lo affronta con sano realismo, ironia e disincanto, grazie anche ad un poker d’attori di primissimo piano quali Tom Waits, Adam Driver, Charlotte Rampling e Cate Blanchett, che si intrecciano nelle tre storie narrate.

Le decisioni della giuria, a cascata, e con più di un mal di pancia al suo interno secondo quanto riportano i bene informati, hanno portato ad altre scelte sinceramente poco comprensibili. Il Leone d’argento per la miglior regia è infatti stato assegnato a “The smashing machine” dell’americano (ancora una volta) Benny Safdie. Storia, scontata, di un lottatore di wrestling, zeppo di luoghi comuni. Ma Payne, ed è una domanda ovviamente retorica, ha mai visto “The wrestler” di Darren Aronofsky, con un commovente e disfatto Mickey Rourke che a Venezia vinse nel 2008? Quello sì un film da premio.

Un altro dei temi affrontati da questa 82a edizione del festival è stato quello del lavoro. “At work” della francese Valerie Donzelli si è aggiudicato il Leone per la miglior sceneggiatura. A nostro giudizio avrebbe meritato ben altro. Pur prendendo spunto da un presupposto un po’ tirato per i capelli (un fotografo che guadagna più che bene che lascia la professione per coronare il suo sogno di scrittore, non riuscito. Quando mai, visti i tempi, si compirebbe un azzardo simile? I desideri si possono coltivare comunque) affronta la precarietà del lavoro contemporaneo con forza e sobrietà. Un lucido viaggio all’inferno.

Di lavoro, ma non solo, si occupa anche un’altra opera di una sezione collaterale del festival, “Venice spotlight”. “Made in Eu” del bulgaro Stephan Komandarev ha per protagonista Iva che lavora in uno stabilimento tessile dove viene sfruttata insieme alle sue compagne. Si ammala di Covid e parte, nella cittadina in cui il film è ambientato, la caccia all’untore. La fabbrica chiude i battenti mettendo in difficoltà tante famiglie. Iva manco riesce più a fare la spesa, cacciata dal negozio. Un affresco tragico di una condizione reale, possibile, dove l’ignoranza e la paura non lasciano spazio all’empatia e alla solidarietà. L’unico che rimane accanto alla donna è un anziano medico (poi anche il figlio) che riflette, con una battuta al fulmicotone che parafrasiamo: “Quello che ci raccontavano sotto il comunismo sapevamo essere falso, ciò che ci dicono del capitalismo è invece tutto vero”. La giuria, decisamente l’aspetto meno convincente di questo festival, ha infine ignorato totalmente “Il mago del Cremlino” del francese Olivier Assayas con un mimetico Jude Law nella parte di Vladimir Putin. Un trattato di storia sulla Russia dagli anni Novanta in poi. Senza un attimo di respiro, coinvolgente e diretto con grande precisione e maestria. Da non perdere.

vitaTrentina

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