L’autocandidatura di Trump, il paradosso del Premio Nobel per la pace

Maria Corina Machado vince il premio Nobel per la Pace

Come nelle leggi della fisica, esiste un paradosso che spiega come funziona oggi il meccanismo dell’informazione: il “paradosso del Premio Nobel per la pace”. L’importante riconoscimento – stabilito ad Oslo da un apposito comitato – quest’anno è andato a Maria Corina Machado, oppositrice del regime venezuelano, “una delle figure civili più straordinarie del coraggio latino-americano dei nostri tempi”.

Un nome per lo più sconosciuto e che pochi hanno memorizzato anche pure dopo l’assegnazione del Nobel. Tutti sanno però che non è stato assegnato a Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti che si era auto candidato e che non ha nascosto il suo risentimento per l’aspettativa andata delusa.

Il paradosso è appunto questo: conta più un’autocandidatura (non andata a buon fine) che l’assegnazione vera e propria. Per Trump, il Premio Nobel per la pace sembra essere diventato una vera e propria ossessione. “Abbiamo messo fine a otto guerre dall’inizio del mio mandato”, continua a ripetere. Anche se non è chiaro a quali conflitti intenda riferirsi. “La persona che ha effettivamente vinto il Nobel mi ha chiamato oggi — ha raccontato il presidente degli Stati Uniti — e mi ha detto: ‘Accetto questo premio in tuo onore, perché sei tu che lo meriti davvero”.

Ovviamente, chi lo vuole blandire per conquistarne i favori, continua a lusingarlo proprio su questo tema: da Netanyahu a Putin (tanto per ricordare due campioni nel campo della pace) hanno ripetutamente affermato che il Comitato norvegese ha fatto la scelta sbagliata, che il premio andava all’inquilino della Casa Bianca.

Tutto questo, ben prima dell’accordo che lunedì ha portato alla liberazione (dopo due anni) dei 20 ostaggi ancora vivi nelle mani di Hamas, alla restituzione dei corpi degli ostaggi morti, alla liberazione di quasi 2 mila palestinesi incarcerati nelle prigioni israeliane, al cessate il fuoco all’interno della Striscia di Gaza: la fine – si spera – di una tragedia già costata la vita a quasi 2 mila israeliani (il massacro del 7 ottobre 2023) e a quasi 70 mila palestinesi uccisi dai raid e dai missili delle forze armate con la Stella di David.

Un giorno storico, si dice in questi casi, perché davvero segna la fine di un incubo. La gioia dei bambini di Gaza e il sorriso degli ostaggi rilasciati raccontano finalmente di un giorno di speranza. Per Trump, lunedì 13 ottobre 2025, rimarrà una data cerchiata in rosso: “È il giorno della pace”, ha continuato a ripetere nel corso di una giornata che l’ha visto “protagonista unico”: dall’arrivo a Tel Aviv alla firma dell’accordo in Egitto (con i leader del mondo ad applaudirlo), dall’incontro con i familiari degli ostaggi al discorso alla Knesset: un vero e proprio comizio, quello al parlamento israeliano che lo ha osannato e dove lui – fatto inusitato in un contesto di rapporti internazionali – ha chiesto la grazia per Bibi Netanyahu. “Tutto è meraviglioso e ci aspetta un futuro di prosperità economica e finanziaria”, ha continuato a ripetere secondo la logica che più gli appartiene, quella dell’imprenditore. Una sorta di delirio di onnipotenza avvalorato dal fatto di essere riuscito effettivamente ad imporre lo stop alla guerra. Del resto, ben si sapeva che solo gli Stati Uniti avrebbero potuto fermare Israele (mai così isolata nel contesto internazionale) e obbligare i Paesi arabi ad intervenire su Hamas.

Un accordo, però, che al momento ha più vuoti che certezze: dal futuro della Cisgiordania a quello dello Stato palestinese, da chi sarà chiamato a governare concretamente la Striscia Gaza al ruolo dei coloni che in questi mesi hanno potuto agire indisturbati, ben armati e pronti a ribellarsi all’esercito israeliano. Rimane la questione dell’autocandidatura di Trump al Premio Nobel per la pace. Perché dietro a questo desiderio-rivendicazione c’è tutta l’idea del suo modo di intendere il mondo e di quel modo di governare che abbiamo imparato a conoscere con il ritorno di “Donald” alla Casa Bianca: “la diplomazia diventa narrazione, la politica si fa performance e il discorso pubblico spettacolo”, per usare il concetto di Antonio Spadaro su Avvenire.

L’effetto di tutto ciò è che con Trump la comunicazione pubblica e la diplomazia internazionale sono diventate semplicemente un grande palcoscenico: “Trump non governa: dirige. Non persuade: performa. Non negozia: racconta”. E lo fa – spiega Spadaro – “con un linguaggio che agisce direttamente sull’immaginario collettivo”. Anche quando c’è da rivendicare per se stesso il Premio Nobel per la pace.

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