La politica internazionale continua ad essere al tempo stesso il punto forte e il punto debole del governo. Forte perché Giorgia Meloni sa muoversi su quel palcoscenico e cerca di sfruttare le incrinature presenti offrendosi sia come amica di Trump (a cui fa comodo accreditare questa immagine), sia come partecipe dello sforzo comune europeo per dare alla UE una maggiore stabilità.
Contemporaneamente è un punto debole per il governo a causa delle divisioni interne alla maggioranza, come ha plasticamente mostrato la visita a Roma del premier ungherese Orban. Le sparate del leader di Budapest contro l’Unione Europea, a suo giudizio incapace di fare alcunché, nonché in favore di Putin e della sua politica al punto di millantare che andrà lui da Trump per convincerlo a togliere le sanzioni alla Russia, per non dire del suo entusiasmo per i governi di destra in Cechia e Slovacchia, non rinforzano certo il posizionamento della nostra premier e del nostro ministro degli Esteri.
Se il secondo si è giustamente affrettato a prendere le distanze, la prima ha dovuto fare il pesce in barile, perché sa bene che le vengono imputati i suoi passati rapporti nel gruppo parlamentare di Strasburgo/ Bruxelles di cui faceva parte chi era ed è al governo in Ungheria, ma soprattutto perché è consapevole che una parte, anche se non grande, dei militanti del suo partito e dei suoi elettori guardano con condiscendenza ed anche con simpatia a Orban e alla sua politica illiberale. Il presidente ungherese non si è fatto scrupolo di creare imbarazzo alla Meloni anche correndo ad omaggiare Salvini, col quale ha potuto esibire consonanze per una politica in sostanza anti europea e legata al populismo di destra.
Non è certo quello che può servire ad una coalizione che si appresta ad affrontare prove elettorali in Campania e in Veneto dove ci sarebbe stato tutto l’interesse ad allargare verso le componenti moderate di quegli elettorati. Si può pensare che alla fine l’abilità della Meloni nel gestire la scena e il buon posizionamento che continua ad avere nel contesto delle relazioni internazionali (non fosse altro per la stabilità del suo governo) potrà bastare a fare da traino al centrodestra, ma sarebbe prudente da parte loro non esagerare nel sentirsi sicuri. La ragione è che nelle valutazioni di larga parte dell’opinione pubblica la politica economica conta più della politica estera.
Ora su quel versante ci sono non poche criticità. È vero che nel complesso la tenuta dei conti pubblici con la prospettiva di uscire dalla compagine di quelli che non rispettano i parametri europei genera ricadute positive, ma molto a livello di sistema e poco a livello degli standard di vita dei cittadini. Il problema di far aumentare la loro capacità di spesa per incentivare consumi di massa non è piccola cosa: anche se sono esagerate certe rappresentazioni di una popolazione attanagliata in gran parte da una condizione economica disastrosa per singoli e famiglie, non c’è dubbio che il potere d’acquisto di salari e stipendi sia stato eroso, senza avere un parallelo calo dei prezzi.
Che ciò porti ad una rivolta sociale non sembra al momento alle viste, perché la sensazione di vivere in un momento di contrazione dello sviluppo è sufficientemente diffusa da spingere i cittadini a bofonchiare, ma a sopportare. Però una politica economica che continua a sembrare incapace di affrontare il problema delle diseguaglianze avrà inevitabili ricadute. Il maggior favore che sul piano fiscale si riserva ai redditi degli autonomi a cui si consente qualche elusione di tributi, rispetto a quelli dei dipendenti su cui si abbatte la falcidia delle trattenute alla fonte non può continuare solo perché è nell’interesse del populismo di qualche partito (per non citare l’eterno problema dell’evasione fiscale di massa).
Così non crediamo che sia una buona politica lasciare spazio alle piccole corride parlamentari per tutelare questa o quella corporazione. Le tensioni che questo genera non si scaricheranno, almeno per ora, negli scontri sociali, ma certamente avranno riflessi non da poco quando si dovrà andare a quei grandi test di opinione che sono i referendum. L’anno prossimo avremo quello sulla riforma delle carriere dei magistrati e c’è da aspettarsi che se non proprio tutti, la maggior parte dei partiti si buttino a cavalcare gli “animal spirits” dell’opinione pubblica eccitando pronunciamenti pro o contro le élite, pro o contro il governo, pro o contro i partiti. A quel punto importerà relativamente chi vince e chi perde, perché dovremo fare i conti con un paese devastato da una poco piacevole esplosione di radicalismi vari.