“Springsteen. Liberami dal nulla” un film intimo di Scott Cooper

È un Bruce Springsteen intimo e vulnerabile quello portato sul grande schermo da Scott Cooper nel film biografico non convenzionale “Springsteen. Liberami dal nulla” (Usa, 2025), scrivendo anche la sceneggiatura, basata sul saggio “Liberami dal nulla. Bruce Springsteen e Nebraska” (Jimenez, 2024) di Warren Zanes.

“Sei un mito, Bruce!” gli dicono per strada fan entusiasti, “Io so chi è lei”, lo “fotografa” il venditore di auto proponendogli la macchina adatta ad una rockstar. Lui, invece, a trent’anni non lo sa, e, reduce dal grande successo del tour di The River, si allontana da tutto, in una casa presa in affitto nel New Jersey. Da solo con la sua voce, ascolta la sua anima che gli parla di tutte quelle perse, in cerca di senso come lui.

Le canterà, immedesimandosi in un serial killer dopo aver visto “La rabbia giovane” di Terrence Malik, e il sorprendente album acustico “Nebraska” (1982) sarà il punto di svolta per l’uomo e la sua carriera. In quell’anno il Boss ebbe un crollo emotivo, alle prese con la pressione dei discografici e i fantasmi del passato, resi con flashback in bianco e nero che mostrano Bruce bambino mentre difende la madre dal padre violento e alcolizzato, ma anche bei momenti condivisi con lui al cinema.

Tra la scrittura delle canzoni e i film visti da bambino e adulto c’è uno stretto legame e l’ispirazione prende forma incidendosi su un registratore casalingo a quattro piste che restituisce un suono “sbagliato”. “Non deve essere perfetto, voglio che sia autentico”, dice il cantante al suo fidato manager Jon Landau (Jeremy Strong), che continua a credere in lui anche quando la crisi sfocia in depressione e la relazione con Faye naufraga.

Il film procede abbastanza lento, esprimendo la fatica del processo creativo e del rompere le regole, ma l’interpretazione di Jeremy Allen White non convince del tutto, tra pose, espressioni statiche e dialoghi scontati. Il registro piatto e monocorde si incrina solo quando l’angoscia dell’uomo si scioglie in pianto, unico momento di apertura realmente commovente. La pellicola sfiora appena il nucleo scottante della questione e ritroviamo Springsteen dopo dieci mesi, quando, alla fine di un concerto, perdona il padre, ma in una postura davvero poco realistica. Bruce ha difeso il suono originale di Nebraska, quella “voce” è l’unica àncora trovata per preservare la sua identità senza ignorarla o nasconderla dietro la maschera della fama, mentre sente di tradire il mondo di perdenti da cui viene. Integra il dolore nella sua musica, poi la depressione tornerà.

L’inquietudine esistenziale, lungo le strade di Philadelphia o in compagnia del fantasma di Tom Joad e di chi sta ai margini, lo accompagna e la ricerca speranzosa di salvezza convive con il racconto dell’America di ieri e di oggi, che fa cantare al Boss “Signore, credo che ci sia solo malvagità a questo mondo”.

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