“Case di riposo”, nelle Apsp serve sociale

È sempre più evidente come quelle che un tempo chiamavamo “Case di riposo” non siano più, né possano essere considerate, strutture solo sanitarie o assistenziali. Nell’esperienza di chi, come me, ha lavorato in questo ambito, è chiaro cosa significhi davvero quella formula un po’ tecnica che chiamiamo “presa in carico dell’ospite”. Dietro al gergo professionale c’è una persona, con le sue relazioni, i suoi affetti, la sua storia.

Una volta si parlava di “ricovero” – mia nonna usava quella parola. Oggi, fortunatamente, parliamo di “accoglienza”. È un cambiamento che racconta un’evoluzione culturale: prendersi cura non vuol dire solo garantire un’assistenza sanitaria adeguata, ma riconoscere la persona nella sua interezza, nei suoi legami e nelle sue fragilità. La salute, lo sappiamo, non è solo assenza di malattia: è benessere fisico, psicologico e sociale. Sulle prime due dimensioni le APSP hanno fatto passi importanti, ma la componente sociale resta spesso fragile, affidata alla sensibilità individuale.

Eppure, è lì che si gioca la qualità della cura. L’ingresso di una persona in struttura coinvolge sempre una rete di relazioni, equilibri familiari, ruoli che cambiano. Accogliere un anziano significa accompagnare anche i suoi familiari, comprenderne i bisogni, favorire la relazione con il territorio.

Nei nostri contesti locali, capita spesso di avere un anziano ospite in RSA e, al tempo stesso, un familiare che rimane a casa con altre necessità di attenzione e sostegno. Servizi diversi intervengono, ma raramente in modo coordinato.

Proprio le APSP, se dotate di figure sociali, potrebbero diventare luoghi di connessione, facilitando il dialogo tra famiglia, servizi e comunità. Per farlo servono competenze specifiche: capacità di leggere i bisogni, di mediare, di costruire reti, di ascoltare. Sono competenze proprie delle professioni sociali – dell’assistente sociale in primis – che dovrebbero trovare riconoscimento stabile all’interno delle strutture. Non è una rivendicazione corporativa, ma una scelta di efficacia e di civiltà.

Integrare la dimensione sociale significa costruire un sistema realmente sociosanitario, capace di prevenire solitudini e conflitti, di sostenere le famiglie, di valorizzare le risorse della comunità. Significa offrire una cura che guardi non solo a ciò che manca, ma a tutto ciò che le persone ancora sono e possono vivere.

La proposta di UPIPA, che chiede di riconoscere la presenza delle figure sociali nelle APSP, va in questa direzione: non un orpello organizzativo, ma un investimento in qualità, umanità e diritti.

Serve sociale, sì.

Serve per ricordarci che nessuno è solo la propria malattia.

Serve per garantire attenzione, ascolto, riconoscimento, dignità e presenza a ogni persona.

vitaTrentina

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